A dispetto delle previsioni di molti analisti, per buona parte della pandemia in corso i tassi di cambio del dollaro non hanno risentito dell’incertezza sistemica di questa fase. La stabilità del dollaro probabilmente è stata assicurata dall’intervento delle banche centrali, che hanno portato i tassi di interesse intorno allo zero.
Il dollaro al momento sembra aver superato indenne il crollo estivo del petrolio e la complessa transizione presidenziale. Inoltre, agli analisti è parso alquanto singolare che in una fase di radicale incertezza macroeconomica e geopolitica i tassi di cambio non hanno “ballato” troppo e la volatilità è rimasta nel complesso contenuta, regalando, così, alla nostra epoca un’altra novità mai registrata prima. Un altro colpo alla hybris degli economisti e ai loro modelli previsionali.
Una cosa è certa, al momento non è possibile trovare una spiegazione alla stabilità registrata nel recente passato, l’attività non convenzionale delle banche centrali può sembrare ai più l’indiziata principale, ma i tassi di interesse non sono di certo l’unica leva delle variazioni dei tassi di cambio e in questa fase l’incertezza geopolitica e le valutazioni del rischio sembrano avere un ruolo ancora maggiore. Se nel breve periodo l’economia Usa, grazie all’operato Fed e al trend decennale al rialzo del dollaro, sembra essere dotata degli strumenti in grado di continuare a “congelare” questa situazione, nel lungo periodo lo scenario potrebbe ribaltarsi.
Dal punto di vista strettamente legato all’andamento del dollaro la pandemia ha giocato un ruolo stabilizzante, rimandando a un futuro difficilmente decifrabile le questioni in sospeso, fra le quali spicca la sostanziale incoerenza fra l’inarrestabile tendenza del debito statunitense ad avere un peso sempre maggiore nei mercati globali e la riduzione della quota della produzione Usa nell’economia mondiale. Una situazione che, come ha recentemente fatto osservare Kenneth Rogoff, ricorda la fine del sistema di cambi fissi stabilito a Bretton Woods e l’attualità del dilemma di Triffin, che illustrava le criticità dell’asimmetrica centralità del dollaro, che da parte nostra avevamo già evocato quasi un anno fa.
Al netto del “congelamento” della situazione del dollaro dovuto alla pandemia e alle intenzioni degli investitori impegnati in una ricerca disperata di certezze, i segnali di un indebolimento del dollaro sembrano ormai evidenti: bassi rendimenti, una colossale base monetaria e l’ampliamento del deficit delle partite correnti. Una situazione che evoca il “twin deficit” in cui un paese deve fare i conti con un disavanzo sia commerciale che di bilancio. Per gli Usa mai come in questa fase è necessario attirare capitali dall’estero e al contempo rendere appetibili i propri asset, svalutando il dollaro: una situazione che è sostenibile solo fino a quando il dollaro potrà giovarsi della fiducia dei mercati verso la leadership americana.
Il “twin deficit” è forse la causa più profonda della debolezza strutturale americana, che si aggrava se teniamo presente che gli Usa stanno perdendo la loro funzione di “compratore di ultima istanza” e che Cina e Giappone sono i maggiori detentori di Treasury dopo la Federal Reserve. A conferma di uno scenario decisamente inusuale, gli “ottimisti” evocano addirittura le virtù del risparmio privato degli americani, che una volta passata la pandemia potrebbe fungere da boost per l’economia.
A ben vedere, a fondamento dello status di moneta di riserva del dollaro rimane l’egemonia globale dell’America, che la presidenza Biden potrebbe provare a rilanciare, lasciandosi alle spalle l’irrituale unilateralismo di Trump e usando per ricompattare lo schieramento dei paesi occidentali, magari anche in modo strumentale, il tema dei diritti umani in relazione alla questione di Hong Kong e delle minoranze uigure. Probabilmente, la forza residuale del dollaro va spiegata con il fatto che i suoi avversari non sembrano ancora intenzionati a sostituirlo. Il renminbi deve ancora conquistare definitivamente la fiducia degli investitori e d’altro canto ogni volta che una nave container cinese abbandona i porti nazionali, dei dollari entrano in cassa. Un dato a cui si aggiunge il fatto che il commercio internazionale non sembra aver risentito molto della volatilità.
Quindi nel breve periodo non sembrano esserci ancora alternative al dollaro – secondo il Fondo monetario internazionale fino al primo semestre del 2020 il dollaro rappresentava il 61% delle valute di riserva, mentre l’euro e il renminbi rispettivamente il 20 e l’1,9% -, ma i rapporti di forza diventano ogni giorno più sfavorevoli e sono evidenti i graduali tentativi dei governi cinese e russo di indebolire il dollaro, riducendone l’uso nelle proprie economie nazionali e in quella globale.
Inoltre, in futuro, converrà prestare molta attenzione all’andamento dell’euro e alle decisioni della Bce. Il punto dirimente della questione sembra essere legato al modo in cui si uscirà dall’era del dollaro, ovvero se ciò avverrà in modo unilaterale o in modo concordato e multipolare. Ovvero se la decisione di uscita unilaterale avverrà in virtù di una scelta determinata dai rapporti di forza oppure se sarà il frutto di una opzione condivisa, magari fondata sull’utilizzo sistematico dei Diritti speciali di prelievo (Dsp) o su una nuova criptovaluta basata su un paniere delle principali valute internazionali.