Il 2020 verrà ricordato, fra le varie cose, anche come l’anno del ritorno della storia. L’interesse diffuso per una disciplina che per molto tempo è rimasta relegata fra gli interessi degli specialisti e degli amanti del nozionismo colto, ha diverse motivazioni che vanno dal successo decretato dal web a studiosi che sono orami assurti a livello di icone pop a quello, forse più motivato, che è la conseguenza della crisi generalizzata del sistema dei saperi scientifici.
Detto molto banalmente, ci si rivolge alla storia per trovare quel simulacro di certezza di cui un po’ tutti hanno bisogno, magari trovando quelle risposte che le scienze, naturali e sociali, non riescono più a dare.
Lo studio della geopolitica tradizionale rientra in questa tendenza, che cerca delle “costanti” nei processi storici e le regolarità nel mutevole e volubile campo delle relazioni umane. Il ritorno della geopolitica, però, ha un avversario che non ha alcuna intenzione di cedere il campo. La scienza economica di stampo marginalista e neoclassico, almeno in Europa, continua a tenere salde le redini di quello che qualcuno ha definito il mainstream, riuscendo a condizionare il dibattito sulle questioni economiche, grazie anche a quello che gli studiosi di geopolitica chiamano “riduzionismo economicistico” che semplifica fino al parossismo la complessa sfera degli attori sociali e istituzionali. Senza rievocare l’ottocentesca “disputa sul metodo”, è evidente la valenza geo-strategica della geopolitica tradizionale, così come la intendiamo in Occidente, e della scienza economica, che generalmente trionfano lì dove l’altro ha un ruolo ancillare, in un gioco in cui una scienza sembra per statuto voler escludere l’altra.
La fase di incertezza in cui ci troviamo, però, gioca brutti scherzi a chi cerca di interpretare la realtà attraverso le lenti di un unico approccio scientifico.
Il caso della crescente tensione fra Turchia e Grecia rappresenta un caso emblematico delle difficoltà insite nel comprendere una situazione che sfugge a chi prova a inquadrare i processi servendosi di un’unica prospettiva d’analisi. I rimandi alla tradizione ottomana, alle umiliazioni infitte dal trattato di Sèvres del 1920, al nazionalismo kemalista campeggiano in quasi tutti di editoriali, i quali ci dipingono il dramma di un passato ingombrante che la Turchia non riesce a lasciarsi alle spalle.
Al contempo le analisi che utilizzano le categorie della geopolitica vedono nelle rivendicazioni turche il compiersi di un destino nazionale, di un percorso deterministicamente tracciato da fattori immutabili.
Sul versante degli analisti economici, la Turchia è solo un altro caso di crisi indotta da una classe politica populista che ricorre all’utilizzo disinvolto delle casse dello Stato per creare del facile consenso. Il ricorso a una politica estera aggressiva è l’altra faccia del fallimento delle politiche economiche adottate.
Due prospettive che se hanno un nocciolo di verità, fanno perdere il quadro complessivo e la natura delle novità della fase che stiamo vivendo. Anche per questo motivo parlare di ritorno di espansionismo neo-ottomano può essere fuorviante, perché l’attuale politica estera turca è piuttosto un ibrido in cui convivono tendenze kemaliste, nazionalismo tradizionale e nostalgie imperiali.
Come definire altrimenti la teoria della “Patria Blu” elaborata dall’ammiraglio Cem Gürdeniz, nella quale convivono una tradizionale “diplomazia delle cannoniere” e un mix di revanscismo antioccidentale avverso alla Nato e che con il progetto neo-ottomano ha poco da spartire. Un attivismo in politica estera che l’accordo fra Grecia ed Egitto – che ha anche suscitato le perplessità del capo della politica estera dell’Ue, Josep Borrell – ha rinvigorito.
Anche per questo motivo, la tensione nel Mar Egeo e nel Mar del Levante è il frutto ambiguo della versione turca della geopolitica della sicurezza, secondo la quale un paese che è assurto al livello di potenza regionale non vuole più subire passivamente la competizione geo-economica che sta maturando nel Mediterraneo. L’aggressività della Turchia è una delle tante facce della competizione in atto e il giudizio che le viene dato, spesso, è strettamente vincolato dalla prospettiva e dagli interessi in gioco.
Dovremmo, piuttosto, dare uno sguardo d’insieme al sistema delle relazioni internazionali per capire che se è il centro a vacillare, le tensioni si scaricano sulle faglie del sistema delle relazioni internazionali. La Turchia e il Medio Oriente – Siria in primis – sono il punto in cui finiscono per confliggere Oriente e Occidente, riproducendo nel Mediterraneo orientale le stesse dinamiche che ritroviamo in quello che è stato definito il “Mediterraneo asiatico”, ovvero nel Mar cinese meridionale.
La globalizzazione ha avuto fra i suoi vettori più importanti il commercio marittimo e non è un caso che in questa fase di riconfigurazione del commercio mondiale siano proprio i mari a essere il teatro di una competizione di nuovo tipo in cui si riaffacciano vecchie potenze che nel corso del Novecento e Ottocento avevano subìto l’egemonia occidentale.
La novità della fase in atto sta tutta qui: il mondo esperisce un vuoto di potere – in cui gli Usa sono alle prese con una crisi di identità in cui pesa l’incerto futuro del dollaro e le aspre divisioni interne – e le potenze emergenti non sono più disposte a vivere in una condizione subalterna. L’ambiguità della politica estera turca è il frutto di una politica che, da un lato, risponde al crescente protagonismo nel Mediterraneo dei paesi europei – Francia in primis – dei quali, in ottica turca, la Grecia è semplicemente un proxy e, dall’altro, vuole far pesare il proprio ritrovato ruolo di potenza marittima, dando vita a un pericoloso gioco a somma zero, in cui l’ampliamento della propria sfera di influenza vuol dire ridurre quella dell’avversario.
Una situazione inedita in cui coesistono il ritorno di vecchie potenze ormai tecnologicamente e militarmente all’avanguardia – la Turchia si è dotata in poco tempo di una flotta efficiente e di droni sofisticatissimi – e la crisi del vecchio ordine, in cui le potenze tradizionali non hanno alcuna intenzione di rinunciare al proprio ruolo (basti vedere l’attivismo della Francia in Libano). Un gioco complesso che può avere esiti un tempo impensabili, basti pensare alla possibilità di un conflitto in cui si affronterebbero l’Ue, di cui la Grecia fa parte, e la Nato, che ha ancora nella Turchia uno dei suoi perni principali.
Una situazione paradigmatica del caos sistemico in cui gli Usa devono soppesare ogni azione per non rafforzare la Cina e soprattutto la Russia. Una situazione in cui pesano le ambiguità della politica estera tedesca, che se da un lato continua a mantenere uno storico canale privilegiato con Istanbul, dall’altro, non volendo l’ingresso della Turchia nell’Ue, è la causa principale dell’isolamento turco e quindi del suo revanscismo.
Non sappiamo se Turchia e Grecia passeranno alle vie di fatto, ma la tensione che registriamo sulle sponde dell’Egeo sembra essere al contempo il frutto del vuoto di potere e uno dei tanti volti di una crisi permanente globale che non sembra essere comprensibile rivolgendosi alle certezze della geopolitica tradizionale, né alla presunta razionalità della scienza economica.