La complicatissima questione dell’attacco della Russia all’Ucraina ha avuto un impatto mediatico notevole e trovato, come nel Covid, esperti a centinaia che si sono affacciati con le loro spesso contrastanti tesi a spiegarci il tutto.

Proviamo anche noi a dare una spiegazione a questa tragedia, anzitutto dicendo che chi per primo usa la violenza ha sempre torto e anche che spesso le guerre costituiscono l’extrema ratio per cercare di tappare crisi interne e “unire” i popoli nella difesa di interessi nazionali. L’esempio più classico di questa tesi, che può apparire bislacca a una prima analisi, ci viene, ovviamente, dalla storia e riguarda proprio il Continente latinoamericano che, nel 1982, vide scoppiare quella che è passata alla storia come la guerra delle Falkland/Malvinas.



Vediamo di fare un’analisi di cosa accadde quel fatidico anno: le Falkland/Malvinas (a seconda che si usi la denominazione inglese o argentina) costituiscono un arcipelago di circa 200 isole che distano più di 2.000 km a Sud dalla costa argentina ma sono “ancorate” alla piattaforma territoriale di questo Paese. Ed è questa la principale ragione delle rivendicazioni argentine sul territorio, in quanto che la storia recita una narrazione che, partendo dalla scoperta dell’arcipelago, avvistato per la prima volta dal navigatore portoghese Esteban Gómez, dà una versione differente. Solo 170 anni più tardi l’Inglese John Strong vi mise piede, battezzandole Falkland in onore del politico Anthony Cary, Visconte di Falkland. Nel 1783 arrivarono coloni francesi che, provenienti quasi esclusivamente da Sant-Malo, le battezzarono Malouines da cui successivamente derivò il loro nome Spagnolo (Malvinas).



Dopo alterne vicende, cedute dalla Francia alla Spagna, nel 1825 l’Argentina ne prese possesso occupandole con l’esercito seguito da propri coloni fino al 1833, quando gli inglesi ne presero possesso definitivamente.

Come ripetiamo l’Argentina le considerò sempre suo territorio ma, a parte una risoluzione Onu promossa dal Presidente Argentino Arturo Illia, che nel 1965 fece approvare il documento 2065 (che in pratica dava ragione alle richieste del suo Paese), non si giunse alla fine a un accordo con gli inglesi, per cui non si mosse foglia fino al fatidico 1982.

L’Argentina si trovava dal 1975 in piena dittatura, ma un regime che sembrava forte e unito in mano a militari che reprimevano l’opposizione uccidendola e facendola sparire aveva già al suo interno delle crepe indelebili che ormai facevano vacillare il potere. Problematiche che vennero poi alla luce quando tutta la faccenda dei “desaparecidos” venne internazionalmente conosciuta, facendo piovere condanne al regime a livello mondiale, che però rimasero ancorate a meri proclami.



Ma all’interno del potere militare argentino le divisioni rischiavano di dare il via alla disgregazione della Giunta, finché prevalse, come soluzione al grave problema, proprio la questione delle Malvinas. Ossia risolvere la crisi attraverso una questione territoriale che, secondo i calcoli della dittatura militare, avrebbe “distratto” la nazione e portato gli occhi del mondo a focalizzare la tematica a livello internazionale. Vi ricorda qualcosa?

Per questa ragione iniziarono i proclami per l’annessione dell’arcipelago al territorio nazionale argentino, ma la diplomazia non potè far nulla e si arrivò alla rottura delle relazioni tra i due Paesi, fatto che anticipò di poco lo sbarco delle truppe argentine nelle isole, che avvenne il 1° aprile del 1982.

Il Generale Galtieri, a capo della Giunta, celebrò l’avvenimento e già dalla dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna riuscì a portare più di un milione e mezzo di persone nella storica Plaza de Mayo per dare l’annuncio: successivamente l’intero Paese si compattò con il Regime e le “disgrazie interne” vennero momentaneamente accantonate a favore di una questione territoriale molto sentita in un’Argentina che ora sosteneva i militari.

Galtieri pensava che la decisione dell’occupazione militare delle isole sarebbe stata una mossa doppiamente produttiva: primo perché avrebbe ricompattato l’intera Argentina al fianco del potere; secondo perché riteneva l’annessione dell’arcipelago definitiva in quanto, mal consigliato nonostante gli avvertimenti internazionali, credeva che il Regno Unito non si sarebbe mosso per difendere possedimenti così lontani dalla Madre Patria, in pratica isolotti all’epoca pieni solo di pecore e con pochi abitanti.

Ma a Downing Street c’era all’epoca una tale Margaret Thatcher, pure lei con problemi interni notevoli, ma che non esitò nell’inviare truppe nel Sud dell’Atlantico. L’intervento inglese nell’arco di 74 giorni riconquistò le isole, come tutti sappiamo e per l’Argentina fu una sconfitta totale che però, dopo alcuni anni, la rivelazione di alcuni particolari metterà sotto la luce della casualità: gli inglesi difatti arrivarono a un certo punto, negli ultimi giorni del conflitto, ad avere a disposizione munizioni per combattere solo altri tre giorni, vista l’interruzione dei rifornimenti. Quindi l’attacco finale a Port Stanley fu doppiamente decisivo.

A livello internazionale questa guerra venne supportata da una completa unione del mondo occidentale nell’alleanza con la Gran Bretagna, mentre l’Argentina potè contare sia su quella di alcune nazioni latinoamericane che, inaspettatamente, dell’Urss: sì, proprio i nemico giurato della Giunta militare argentina, il comunismo, si era alleato con i dittatori.

Le conseguenze per l’Argentina furono il crollo del Regime militare, sia per le diatribe interne che esplosero che per le massive proteste in tutta la nazione che si sentì tradita e voltò le spalle ai passati “patrioti”, con il ritorno del Paese alla democrazia e il processo ai misfatti incredibili commessi dalla Giunta.

Alla fine di questo resoconto ognuno potrà trarre le sue conclusioni: sono passati più di 40 anni, il mondo è cambiato, ma certe politiche che alla fine sfociano in guerre no. Vediamo cosa accadrà in Ucraina, ma di certo chi spara per primo alla fine perde, sempre che il mondo si mantenga unito nella maggior parte dei Paesi nel rispondere con fatti concreti alla provocazione di chi crede che la soluzione dei suoi problemi passi per la guerra.

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