Gli effetti della guerra si stanno propagando in maniera ampia e a distanza, come onde sismiche che dall’epicentro di un terremoto si diffondono ovunque attraverso i mercati delle materie prime, in costante crescita, il commercio, sempre più contrastato e i collegamenti finanziari spesso a singhiozzo.
È l’immagine potente evocata da Pierre-Olivier Gourinchas, nuovo capo economista del Fondo monetario internazionale, per presentare l’aggiornamento di aprile del World Economic Outlook. Difficile non esser d’accordo: il mondo è alle prese con una gigantesca distruzione di valore dalle conseguenze per ora imprevedibili e che minacciano di non risparmiare nessuno, a partire dai più deboli.
Dopo il default dello Sri Lanka, primo campanello d’allarme in arrivo dal sud del mondo, si profila la bancarotta dell’Etiopia, Paese che fino a un paio d’anni fra sembrava avviato a un orizzonte di sviluppo. E non è facile valutare quale sarà tra pochi mesi l’effetto della carenza di beni alimentari legati alla guerra che ha colpito sia le produzioni di cereali e oli di girasole di Russia e Ucraina che la distribuzione dei prodotti, con un aumento considerevole dei costi.
Non è impresa facile quella di limitare i danni all’economia quando tanti fattori congiurano a distruggere ricchezza oltre che vite umane. Vale anche per i banchieri centrali alle prese con un dilemma di non facile soluzione. Da un lato, è necessario aumentare i tassi per evitare che l’inflazione bruci il potere di acquisto di stipendi e azzeri la spinta a investire. Dall’altro, occorre una precisione chirurgica per evitare che aumenti troppo e i costi non provochino il decesso dei pazienti, cioè i Paesi che in questi anni si sono fortemente indebitati (il debito è salito in media dal 40% del 2015 all’attuale 60%) per contrastare il rallentamento della crescita. Una situazione scomoda specie per l’Europa, il continente più esposto al rischio di migrazioni dettate dalla fame che andrebbero ad aggiungersi alla catastrofe ucraina, l’economia più fragile di fronte all’aumento dei costi delle materie prime (e dell’energia in particolare), alle prese con la necessità di ripensare con grande urgenza al proprio posizionamento strategico in un mondo sempre più pericoloso e meno rispettoso di quei diritti umani e civili che sono (per fortuna) il cemento del Vecchio continente.
È in questo contesto che si collocano le prossime mosse della politica monetaria della Bce: prima la fine degli acquisti della banca a sostegno del debito dei partner più fragili (primo fra tutti l’Italia), poi, a partire dall’estate, i primi timidi aumenti del costo del denaro sulla scia delle scelte Usa, necessari per difendere il potere d’acquisto dell’euro (e, come spesso si dimentica, delle pensioni di Paesi sempre più “vecchi”). Con grande prudenza, ben attenti a non esagerare nella speranza (ahimè, per ora solo una speranza) che nel frattempo i Governi mettano a disposizione della politica economica gli strumenti per contrastare nel tempo gli effetti della crisi che, inevitabilmente, inciderà sui redditi.
Si profila, infatti, una non facile prova per le grandi democrazie. A partire dalla Francia, ove oggi si scontrano in maniera chiara e netta due visioni contrapposte sul futuro del nostro continente. Ma non è meno complesso il ripensamento che viene chiesto alla Germania. Schroeder e Angela Merkel hanno consegnato ai successori un Paese all’apparenza solido, capace di approfittare al tempo stesso dell’ombrello militare Usa, dei vantaggi dell’energia a basso costo del fornitore russo e dei commerci con il cliente cinese. Il tutto con la garanzia di una moneta più debole del vecchio marco e di un apparato industriale a basso costo nell’Europa orientale. Insomma, il migliore dei mondi possibili, a prescindere dalla sicurezza e dagli oneri che comporta una leadership globale. Ma ora il giocattolo si è rotto: Berlino, a malincuore, deve ripensare alla sua indipendenza energetica. Un vero e proprio shock culturale oltre che politico ed economico.
Non è meno profondo il cambiamento che viene chiesto alla società italiana. Innanzitutto perché, come abbiamo visto, il Tesoro perde il suo finanziatore unico o quasi. Certo, per un po’ la Bce potrà ancora agire con gli interessi accumulati con le operazioni di questi anni. Ma si va comunque alla fine di un ciclo. Prima o poi l’Italia non potrà più contare sul quasi automatico ripianamento del deficit grazie all’ombrello della Bce. Mario Draghi, che ben conosce i meccanismi di Bruxelles, è più consapevole che qui si gioca il futuro posizionamento del Paese. Di qui la decisione di non cedere alle pressioni dei partiti per aumentare lo scostamento di bilancio rispetto al Def. Così come si chiede alla Francia di pensare in termini europei (e non più di grandeur) o alla Germania di guardare al di là dei vantaggi di bottega, alla politica e alle parti sociali di casa nostra si chiede di non considerare più il bilancio pubblico come una torta da spartire o, peggio, una diligenza da assaltare. In epoca di tassi in aumento ogni scostamento rischia di costare caro.
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