La riapertura dei negoziati sul commercio tra Usa e Cina non deve trarre in inganno. I dazi sono la punta dell’iceberg di una partita molto più grande, invisibile, in cui sotto la superficie delle barriere commerciali si nasconde una guerra per il predominio tecnologico mondiale. Gli Usa per la prima volta da 70 anni rischiano di perdere. Chris Foster, trader e analista, parla da osservatore. Più dell’evento di sabato al G20,  gli interessa la nuova Guerra fredda “che durerà decenni, non mesi”.



«Non sono particolarmente stupito dai risultati del meeting Xi-Trump e non vedo nulla se non la riattivazione del dialogo. Cosa è cambiato? È stato sospeso il proposito di aggiungere altri 300 miliardi di dollari di beni importati alla lista dei dazi. Questa è la notizia. Altri punti minori discussi mi sembrano a favore della Cina, inclusi i toni più costruttivi su Huawei. Non c’è molto da dire. Vediamo nei prossimi mesi l’impatto dei dazi del 25% sugli attuali 250 miliardi di dollari di beni soggetti a dazi». 



D’accordo, ma ci può aiutare a vedere le cose in prospettiva?

C’è un nodo politico. La Cina si siede al tavolo con una domanda: con quale presidente proseguiremo la negoziazione nei prossimi 5 o 10 anni? Trump invece si siede pensando: “cosa devo fare per evitare di fare un danno economico o finanziario che mi costerebbe la rielezione?”

Detta in questi termini, ha vinto la Cina.

Ha vinto la Cina sulla sostanza, Trump sull’immagine. Mi spiego: la Cina è ovviamente destinata a soffrire di più la guerra di dazi in termini di crescita, ma Xi non ha una campagna elettorale durissima alle porte: questo mette Trump in un angolo.



Come si è arrivati a una guerra commerciale?

Il mainstream pro-globalization non ha voluto considerare seriamente almeno due grandi problemi. Primo, la Cina da quasi 20 anni ha visto una crescita enorme del proprio export e della propria economia sulla base di pratiche industriali e commerciali profondamente illegali, scorrette e strutturalmente distanti dagli standard occidentali. Parliamo di inquinamento, sfruttamento della forza lavoro, falsificazione e violazione a vari livelli di brevetti e copyright; protezionismo estremo del proprio mercato domestico combinato con lo sfruttamento spietato di mercati esteri deboli, vedi dominio nelle materie prime in Africa, o con la penetrazione senza scrupoli di mercati più “aperti”, come Usa e Ue.

E il secondo punto?

La redistribuzione dei benefici della globalizzazione e della crescita da essa derivante è stata molto iniqua e ha generato una concentrazione di potere economico e finanziario mai visto prima. E la crescita della Cina è stata vista come una panacea per le economie occidentali, uscite molto danneggiate e indebolite dalla crisi 2008-2009 Questi due punti meritano di essere la base della nostra discussione. 

Ci permettiamo di supporre che i due mandati di Obama siano stati parte del problema.

In un certo senso sì. Obama e i suoi “amici” hanno accelerato il processo di globalizzazione accettando le regole del più forte nel commercio, la Cina dalla crisi in poi, e hanno accettato che la Cina stessa si agganciasse all’onda di progresso tecnologico americano. Fino a superare gli Usa su molti fronti. Non è azzardato ipotizzare che gli Stati Uniti oggi non siano in grado, da soli, di produrre uno smartphone.

Perché Obama ha accettato o sottovalutato questa situazione?

Non saprei dire quanto è dovuto alla spinta dei suoi supporters della Silicon Valley e quanto è legato alla catastrofica politica estera del duo Clinton-Kerry. Certamente, le grandi società tech americane avevano disperato bisogno di un aumento rapido della produzione di chips e di accelerare il crollo dei prezzi di tali componenti chiave alla base dello sviluppo tecnologico. Quasi tutti i processori di Apple e l’infrastruttura di data processing e data storage di Amazon, Microsoft, Facebook, Google eccetera sono prodotti in Cina, Taiwan, Corea e adesso ormai in tutti i paesi del Sudest asiatico. Ma la Cina è il paese che più è cresciuto in termini relativi di know-how. Come sia possibile che un’amministrazione sulla carta esperta come quella di Obama potesse accettare di fatto l’outsourcing di gran parte del patrimonio tecnologico americano senza giudicare le conseguenze in tema di national security e perdita di know-how e capacità produttiva, è una domanda seria. 

Vuol dire che una guerra dei dazi era comunque inevitabile?

Quello che sta facendo Trump avrebbe forse dovuto farlo Obama 10 anni fa, quando una guerra commerciale per difendere la tecnologia Usa sarebbe stata ancora efficace. Non averlo fatto ha un costo irreparabile per gli Usa e per il resto del mondo. Ora non sono certo che l’amministrazione Trump sia in grado di ottenere molto dalle recenti misure e minacce. Alcune misure contro l’export cinese, per esempio nel settore dell’acciaio e componenti per auto, suonano un po’ anacronistiche.

Andiamo con ordine e partiamo dall’import americano.

Nel 2018 il trade deficit degli Usa era di 890 miliardi di dollari, quasi la metà legato alla Cina. Non solo: è cresciuto di circa il 10% rispetto al 2017. Questo dà fiato agli antagonisti di Trump, i quali sostengono che le sue politiche hanno aumentato e non diminuito il trade deficit verso la Cina. Il numero è importante e quando raggiunge queste dimensioni, ci sono conseguenze, soprattutto se tale trade deficit è in combinazione col fiscal deficit. È il cosiddetto twin deficit.

La principale di tali conseguenze?

Il twin deficit crescente genera un impoverimento dell’economia Usa, un calo del potenziale di crescita (trend growth), riduzione degli investimenti privati, maggiore dipendenza da flussi di capitale esteri e poi, con pro e contro, un naturale indebolimento del dollaro.

Ma è vero o no che l’aumento del trade deficit, e quindi della dipendenza dalla Cina, è attribuibile all’attuale amministrazione?

No. Non si possono facilmente influenzare queste dinamiche macro perché negli ultimi tre anni l’economia Usa è cresciuta in modo così forte che l’import di beni e servizi aumenta naturalmente. È così da 50 anni… gli Usa funzionano così, non sono come la Germania che ha una notevole propensione al risparmio. In Usa se una famiglia guadagna 1.000 dollari in più grazie al boom economico, aumenterà i consumi di 2.000 dollari. In Germania solo 500 andranno in consumi, il resto in risparmio.

Gli americani insomma continuano a importare quasi tutto.

Anche perché il dollaro forte rende tutto conveniente. C’è un paradosso: per riportare il trade balance verso un equilibrio, occorrerebbe un indebolimento del dollaro e una ripresa della manifattura Usa, ma per ottenerlo ci vorrebbe una fortissima recessione americana. Ovviamente non è la soluzione desiderata all’inizio di una lunga campagna elettorale.

Da cui l’imposizione di dazi verso la Cina. Non ci avevano detto che il libero mercato assoluto avrebbe aumentato la ricchezza generale a livello globale?

Questo è stato il pensiero chiave degli economisti liberal dell’era Obama, basato sull’evidenza della crescita del reddito medio pro capite nei paesi emergenti. Dimenticando però che oltre a problemi strutturali di distribuzione del reddito e della ricchezza, i veri vincitori di tale onda lunga di global trade sono state dittature e regimi illiberali. O anche paesi democratici come l’India, intoccabili politicamente, ma che internamente accettano e incoraggiano pratiche economiche, culturali e sociali che giustificherebbero un embargo internazionale, altro che modello di sviluppo democratico come spesso leggiamo! Gli esiti di concentrazione di ricchezza e potere dovrebbero far riflettere economisti e politici liberal. 

A chi pensa?

Praticamente tutti si sono appiattiti su posizioni conformiste che non vedevano che una soluzione ai problemi citati, e cioè più Stato nell’economia e soprattutto tasse su eredità,  ricchezza e transazioni finanziarie. Il premio Nobel Josef Stiglitz, di area dem e istericamente anti-trumpiano, è stato uno dei pochissimi economisti di sinistra a lanciare l’allarme già 15 anni fa: la globalizzazione economica e il commercio libero non generano solo benefici ma anche squilibri gravi. Si veda Stiglitz, Globalisation and its discontents, 2002. Dello stesso lato politico, ma più favorevole alle politiche pro-globalization, Paul Krugman, che da 4 anni si sta dedicando anima e corpo a una feroce lotta quasi quotidiana contro Trump sulle colonne del New York Times e in convegni in giro per il mondo. Per fortuna, a fianco del mondo accademico totalmente ideologizzato, e della Silicon Valley, che sempre cerca di imporre la propria etica al mondo, Wall Street, umilmente orientata solo alla moltiplicazione dei propri profitti, rimane il meno peggio.

Quale è il ruolo della tecnologia nella definizione delle parti e della posta in gioco?

Solo di recente in Usa si è iniziato a discutere con preoccupazione della leadership tecnologica globale. 

Può essere più preciso?

Società come Intel, Qualcomm, Nvidia, Cisco mantenevano la gran parte delle produzione ad alto valore aggiunto in Usa, Taiwan o Sud Corea mentre le componenti hardware/chips di basso livello innovativo venivano esternalizzate dalle fabbriche cinesi a prezzi competitivi. Molto è cambiato in 10 anni: la difesa Usa è sempre più tecnologica e meno convenzionale. Oggi si importano sensori digitali e processori prodotti in Cina per equipaggiare missili da schierare in chiave anti-Cina… Eccezionale, no? Inoltre, oggi la Cina non solo produce chips di altissimo livello, ma è il numero uno nel campo del cosiddetto telecom equipment.

Immagino che stia toccando il tema Huawei. Cosa può dirci?

Il tema è complesso, politicamente. È l’esempio più clamoroso di “eccesso di outsourcing” in Cina. Huawei è diventata leader assoluta nell’infrastruttura wireless alla base della tecnologia 5G, cioè la trasmissione di dati wireless di quinta generazione, che richiede il rinnovo e la sostituzione pressoché totale dell’attuale tecnologia di trasmissione e ricezione in essere. Società concorrenti come Nokia e Ericsson sono irrilevanti come dimensione, nonché schiacciate dai regolamenti europei (l’antitrust di Bruxelles non permetterebbe un “European Champion” nel settore). In Usa le società del settore non sono ben integrate verticalmente come Huawei. I nomi dei colossi Usa da seguire sono Cisco, Qualcomm, Corning, Ciena: nessuno è capace di sostituire Huawei!

(Federico Ferraù)

(1- continua)