Quali considerazioni strategiche e politiche si possono fare alla luce dei recenti avvenimenti accaduti in Iraq? Al di là di quanto abbiamo già indicato in un articolo precedente, occorre inquadrare in modo più chiaro lo scenario che si potrebbe concretizzare.

Incominciamo dal prendere brevemente in considerazione il ruolo che le infrastrutture militari Nato/Usa hanno in questo conflitto tra Usa e Iran. Numerosi osservatori hanno sottolineato con stupore e insieme con sorpresa la mobilitazione militare americana presso le principali infrastrutture Nato/Usa (Aviano, Vicenza, Rota in Spagna, Incirlik in Turchia, la base navale di Suda presso l’isola di Creta) a seguito delle possibili e verosimili ritorsioni che l’Iran – Stato sovrano e quindi non assimilabile in alcun modo all’Isis – porrà in essere in funzione anti-americana.



Sotto il profilo geostrategico la capacità di uno Stato di dimostrare la sua potenza o di intervenire con forze militari significative lontano dal territorio nazionale per appoggiare la sua politica estera e per difendere i suoi interessi è assolutamente decisiva. Proprio per questa ragione il mantenimento di infrastrutture navali o aeree consente ad un paese – in questo caso gli Stati Uniti – di avere una sorta di estensione della forza presente sul territorio nazionale riducendo in questo modo i fattori negativi che potrebbero presentarsi in assenza di ampie e capillari infrastrutture militari.



Per quanto riguarda nello specifico il nostro paese, la centralità geopolitica che ha per la Nato dipende dal fatto che il fianco sud della Alleanza atlantica costituisce uno snodo fondamentale, sia perché ci sono più di 40 nazioni che circondano l’area, sia perché il 90% del commercio della Grecia e della Turchia e il 70% di quello italiano passa attraverso circa duemila navi mercantili che attraversano le rotte del Mediterraneo. Inoltre, tutte le importazioni di petrolio dal Medio oriente della Grecia e dell’Italia, e circa la metà di quelle di Francia, Germania e Spagna, passano per le medesime rotte. A tale proposito credo sia utile tenere a mente le implicazioni che le sanzioni americane hanno avuto sull’Europa a partire dal 2018 per comprendere il ruolo marginale dell’Europa rispetto agli Usa.



Come è noto Donald Trump aveva annunciato l’8 maggio 2018 il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran, firmato nel 2015. Aveva promesso di mettere in atto severe sanzioni economiche contro Teheran e i suoi partner commerciali. Queste dichiarazioni hanno segnato l’inizio di un nuovo confronto economico coinvolgendo Stati Uniti, Germania, Francia, ma anche Cina.

All’Europa è stato fatto divieto di acquistare il petrolio iraniano e tutto ciò costituisce un ingente danno economico. In questo modo la Germania, il Regno Unito, l’Italia, la Francia hanno de facto rinunciato alla possibilità di posizionarsi come leader in un paese a lungo chiuso all’Occidente. Ebbene nonostante le numerose dichiarazioni dei capi di Stato europei e del segretario generale delle Nazioni Unite e nonostante le promesse fatte di trovare una soluzione, il margine di manovra dei leader europei è stato molto limitato.

Tutto ciò dipende non solo dall’intrinseca debolezza dell’Unione Europea rispetto agli Usa, ma è anche la conseguenza della formidabile arma che rappresenta l’extraterritorialità della legge americana. Grazie a questo strumento infatti gli Stati Uniti sono riusciti a rendere il loro sistema legale una potente arma economica. In altri termini il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha il potere di citare in giudizio qualsiasi compagnia straniera con relazioni con gli Stati Uniti e impegnata in attività fraudolente come la corruzione. Ad esempio, l’utilizzo del dollaro Usa come valuta o l’uso della casella postale Gmail conferisce al Dipartimento di Giustizia il diritto di interferire nelle pratiche commerciali di qualsiasi azienda nel mondo.

In breve, con questo tipo di mezzi, gli Stati Uniti hanno una capacità di controllo totale su ciò che sta accadendo fuori dai loro confini. Come parte dell’accordo iraniano, ciò si traduce in un embargo economico che costringe l’Europa a smettere di commerciare con l’Iran senza essere in grado di impedire alle sue società di perdere i loro contratti.

Le dichiarazioni dei più alti rappresentanti europei (dichiarazione congiunta da Francia, Germania e Regno Unito), così come il viaggio del presidente francese Emmanuel Macron negli Stati Uniti nel 2018, non ha avuto effetto sullo stato di avanzamento del problema iraniano.

La Cina, approfittando di questa debolezza politica, ha invece mantenuto e persino rafforzato le sue relazioni con l’Iran. In effetti, la risposta cinese all’annuncio del presidente Trump è stata quella di dimostrare al governo iraniano la sua forte ambizione di prosperare nelle relazioni commerciali e nelle partnership strategiche. L’Iran naturalmente ha sottolineato il ruolo costruttivo della Cina. Questa posizione cinese costituisce la logica conseguenza di una aperta conflittualità con gli Stati Uniti caratterizzata anche dalla guerra economica tra i due paesi. Inoltre, l’Iran è il più grande fornitore di petrolio per la Cina con un quarto delle esportazioni verso il gigante asiatico.

In particolare le aziende cinesi non hanno esitato ad occupare le posizioni vacanti sul mercato iraniano lasciate scoperte dagli europei (ed in particolare dai gruppi francesi). Per quanto riguarda il petrolio, il China National Petroleum Corps (Cnpc) ha rilevato la partecipazione di Total nel giacimento di gas del sud Iran con una quota dell’80,1%. A seguito dell’accordo siglato nel luglio 2017 per un valore di 4,8 miliardi, Total deteneva il 50,1% seguito da Cnpc cinese con il 30% e Petropars iraniano (19,9). Dopo la partenza di Total dal consorzio, Cnpc ha rilevato tutte le azioni e si posiziona come un partner  dominante nel campo dell’energia. La stessa strategia è stata attuata per l’industria dell’automobile attraverso la cinese Bejing Baic.

Insomma la Cina domina i settori strategici dell’economia iraniana con miliardi di dollari di investimenti e ciò sta determinando un rilevante vantaggio competitivo rispetto all’Europa che dimostra sia l’assenza di una politica economica offensiva unitaria – a causa degli innumerevoli contrasti fra nazioni europee – sia ancora una volta la subalternità all’“alleato-nemico” americano.

Passiamo adesso alla seconda considerazione. Al di là dei dettagli tecnici su come il generale iraniano sia stato eliminato, i due aspetti rilevanti sotto il profilo politico sono relativi al fatto che sia Soleimani che al Muhandis -vice comandante delle Unità di mobilitazione popolare cioè delle milizie sciite irachene filo-iraniane – non sono assimilabili a soggetti terroristici ma erano legittimi rappresentati dello Stato iraniano e di quello iracheno. Che di conseguenza l’azione posta in essere da Trump costituisca un esplicito atto di guerra mi sembra una implicazione ovvia.

Passiamo adesso alla terza considerazione. Al di là degli scenari possibili dei quali abbiamo indicativamente discusso nell’articolo precedente è abbastanza evidente che dal punto di vista politico la Russia in prima battuta e in seconda battuta la Cina vedranno rafforzate le loro posizioni politiche non solo in Medi oriente ma anche a livello di credibilità internazionale.

Passiamo adesso alla quarta considerazione. Le dichiarazioni critiche fatte da Mike Pompeo, in relazione alla mancata collaborazione da parte dell’Europa, non devono destare alcuna sorpresa poiché nella logica americana il ruolo degli Stati Uniti è quello di essere una potenza egemone a livello globale mentre l’Europa, per usare l’espressione del politologo polacco Zbigniew Brzezinski, altro non sarebbe che “la testa di ponte” dell’America sul continente, consentendo a Washington di avanzare sulla “Grande Scacchiera” attraverso il rafforzamento dei rapporti euroatlantici e l’allargamento della Nato.

Passiamo adesso alla quinta considerazione. Che sia verosimile un’escalation da parte iraniana in Iraq, nel Libano del sud, in Israele e in Arabia Saudita è abbastanza prevedibile sotto il profilo strategico. Altrettanto prevedibile, ma se possibile ancora più pericoloso ed insidioso, potrebbero essere le reazioni asimmetriche da parte delle numerose cellule dormienti di Hezbollah in Europa. In altri termini questo significa che l’intelligence europea oltre a dover salvaguardare le infrastrutture critiche per eventuali offensive terroristiche da parte degli affiliati di al Qaeda e dell’Isis potrebbe dover far fronte anche ad eventuali azioni terroristiche da parte di cellule dormienti finanziate e addestrate militarmente dall’Iran che potrebbero colpire obiettivi americani in Europa (personale militare, diplomatico o dell’intelligence per esempio)

Sesta considerazione. Ammettendo, il linea puramente ipotetica, che l’azione posta in essere da Trump abbia avuto una finalità esclusivamente dissuasiva nei confronti di Teheran per indurli alla resa, concretamente l’azione offensiva attuata dagli Stati Uniti potrebbe destabilizzare in modo rilevante non solo l’Iraq ma anche il Medio oriente nel suo complesso alimentando il revanchismo sunnita. D’altronde è necessario sottolinearlo che gli Usa non hanno mai accettato la proiezione di potenza iraniana in Iraq e Siria, non hanno cioè mai accettato che un altro player possa mettere a rischio la loro egemonia e quella di Israele e dell’Arabia Saudita.

Infine un’ultima considerazione di ordine non tanto strategico ma di narrazione ideologica altrettanto importante e rilevante nelle scelte che un paese compie in politica estera. Sostenere come alcuni commentatori hanno fatto che nell’attuale amministrazione esista un profondo risentimento anti-iraniano costituisce un errore storico. Infatti l’ostilità feroce anti-iraniana da parte americana si può far risalire alla crisi degli ostaggi all’ambasciata di Teheran nel 1979. Da allora le principali istituzioni americane sia civili che militari hanno sempre visto l’Iran come il principale e più pericoloso sponsor del terrorismo internazionale, definendo il regime politico iraniano come una teocrazia autoritaria antiamericana, antisraeliana e antisemita.

Siamo dunque arrivati alla resa dei conti?