Il 3 gennaio Qassem Soleimani, comandante delle brigate al Quds, unità del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, è ucciso a Baghdad da un raid ordinato dal presidente Usa.

La giustificazione ufficiale è la “difesa preventiva contro gli attacchi a obiettivi statunitensi che il generale stava pianificando in Iraq. Dalla crisi degli ostaggi all’ambasciata di Teheran nel 1979, le principali istituzioni americane sia civili che militari hanno sempre visto l’Iran come il principale e più pericoloso sponsor del terrorismo internazionale. Il diritto internazionale ammette il ricorso alla forza in risposta ad un attacco armato. È controversa invece la legittima difesa in presenza di un attacco imminente o solo possibile. Ed è senza precedenti l’uccisione di un soggetto terrorista sì, ma rappresentante di uno Stato, per di più in uno Stato terzo.



Una settimana dopo non paiono a rischio né la stabilità della regione mediorientale né la missione della coalizione internazionale anti-Stato islamico. E non è per l’uccisione di Soleimani che è in crisi l’accordo sul congelamento del programma nucleare dell’Iran, firmato nel 2015 con Usa, Russia, Cina, Ue e Onu.



L’Iran ha dichiarato di non ritenersi più vincolato ai limiti dell’accordo sul congelamento del programma nucleare del 2015 con Usa, Russia, Cina, Ue e Onu, ma è solo l’ultimo dei 5 steps previsti dall’accordo medesimo, in caso di inadempimento di una delle parti contraenti. Il disimpegno iraniano è iniziato nel 2018, in risposta al ritiro e la seguente imposizione di severe sanzioni economiche contro Teheran e i suoi partner commerciali (anche europei), da parte Usa.

La sospensione delle operazioni di antiterrorismo e addestramento in Iraq e il riposizionamento di alcuni contingenti, incluso quello italiano – deliberate dalla riunione straordinaria della Nato – sono solo temporanei e non mettono in discussione la missione. Il Parlamento iracheno (a maggioranza sciita) ha votato il ritiro delle truppe straniere, incluse quelle statunitensi, dal territorio; ma la risoluzione non è vincolante per il governo.



L’attacco iraniano con 22 missili balistici diretti su due basi irachene che ospitano soldati statunitensi e della coalizione internazionale anti-Isis, sembra essere stato in gran parte simbolico. Il ministro degli Esteri Zarif ne ha rivendicato la legittimità come misura “proporzionata” di autodifesa nel rispetto del diritto internazionale e “conclusiva”: l’Iran “non vuole un’escalation né la guerra, ma è pronto a difendersi da qualsiasi aggressione”.

Il 9 gennaio Trump ha dichiarato che non consentirà che l’Iran abbia l’arma nucleare e di essere pronto a varare nuove sanzioni ma anche ad un accordo finalizzato alla prosperità e alla pace – anche se a Zarif era stato rifiutato il visto per partecipare quello stesso giorno alla riunione del Consiglio di sicurezza sul rispetto della Carta Onu. Nella serata, due razzi sono caduti sulla Green Zone di Baghdad, dove si trovano le ambasciate, senza causare vittime.

Il 10 gennaio, una risoluzione della Camera dei rappresentanti Usa limita i poteri di guerra del Presidente, vietando ogni intervento in Iran senza l’approvazione del Congresso. È una misura simbolica (la risoluzione è non vincolante e difficilmente supererà l’esame del Senato) ma significativa. Usa e Canada accusano l’Iran di aver abbattuto per errore il Boeing con 176 persone a bordo precipitato all’alba del 8 gennaio. Teheran ha confermato quello che appare come un tragico disastro collaterale. E il Consiglio Affari Esteri straordinario Ue ribadisce le priorità per il Medio oriente: “de-escalation” e ricostruzione dell’Iraq.

La crisi internazionale più grave, non solo per l’Italia, è quella della Libia.