Durante la visita di due giorni in Cina, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha invitato apertamente il Governo cinese a unirsi a quello russo nello sforzo di ridurre la dipendenza dei rispettivi Paesi dal dollaro e dai sistemi di pagamento occidentali. Una dichiarazione di intenti che segue le tensioni registrate durante il summit sino-americano di Anchorage e le forti dichiarazioni del presidente Biden, ma che in realtà rende ormai palese il processo di de-dollarizzazione avviato dalla Cina dopo la crisi del 2007/2008. 



La de-dollarizzazione nelle aspettative dei suoi promotori prevede la diminuzione delle quote possedute di debito Usa, il rifiuto dello status di moneta di riserva del dollaro, l’utilizzo di monete diverse per transazioni internazionali e commodity e l’incremento delle riserve auree. Propositi che si basano sull’evidenza della quota decrescente di debito pubblico americano detenuto delle più importanti Banche centrali e della riduzione da parte di molti Paesi del G20 dell’utilizzo del dollaro per gli accordi commerciali. Inoltre, all’interno del sistema di pagamenti internazionali Swift, che notoriamente è dominato dal sistema finanziario americano, a gennaio la quota del dollaro è scesa al 38,26% dal 40,81% dell’anno precedente, mentre l’euro è cresciuto di oltre tre punti percentuali e lo yuan dallo 0,77% al 2,42%. Un processo che la pandemia ha accelerato: infatti, dopo i giorni di maggior incertezza, quando, cioè, il dollaro ha rappresentato un rifugio apprezzandosi del 10% in dieci giorni, gli investitori hanno iniziato a guardare ai mercati che gli assicuravano maggiori rendimenti. Dati strutturali che vanno messi in relazione alle esigenze del Governo russo e di quello cinese di neutralizzare le sanzioni poste in essere dalla Presidenza Usa nella fase che va dalla Crisi della Crimea del 2014 all’insediamento dell’Amministrazione Trump. 



Parliamo della crescente instabilità del contesto economico e geopolitico che, come recentemente ha fatto notare Alessia Amighini, hanno portato la Cina e la Russia a rinsaldare la loro partnership finanziaria. Una relazione che si è consolida grazie ad accordi bilaterali che hanno portato a una drastica riduzione del dollaro negli scambi commerciali fra le due nazioni. Se nel 2015 il 90% del commercio fra Russia e Cina era effettuato in dollari, a inizio 2020 si è scesi sotto il 50%. La Russia, inoltre, sembra aver puntato fortemente sullo yuan, iniziando ad accumularne quote crescenti, arrivando a detenerne un quarto delle riserve mondiali. Una decisione dal forte valore simbolico perché palesa la volontà della Russia di scommettere sullo yuan come valuta alternativa al dollaro e che dà un’ulteriore spinta propulsiva al processo di de-dollarizzazione. 



La controparte cinese ha incassato l’appoggio russo, ma procede gradualmente nella scalata al vertice dell’economia mondiale. Come si può leggere sul Global Times, giornale edito dal quotidiano ufficiale del Partito comunista cinese, mentre la de-dollarizzazione viene ritenuta un processo irreversibile, si è molto più cauti circa il ruolo egemonico dello yuan. Non è dato al momento capire se questo atteggiamento è il frutto di una dissimulazione, ma di certo il processo di internazionalizzazione dello yuan procede in modo molto graduale e con delle caratteristiche decisamente peculiari. 

Il Partito comunista sicuramente ha timore di rinunciare al controllo sui tassi di cambio dello yuan e alla funzione delle “camere di compensazione” di Hong Kong, Shangai e Londra che fungono da aree offshore per i flussi di valuta cinese. Una situazione all’apparenza contraddittoria in cui coesistono il controllo del cambio, l’internazionalizzazione della moneta e l’autonomia monetaria. Una situazione che può evocare il “Policy Trilemma”, ma che in realtà è frutto di una situazione inedita in cui la competizione geopolitica può avere come fattore stabilizzante il controllo politico dei flussi monetari, mentre la sfida all’egemonia del dollaro procede secondo uno schema che ricorda il gioco del Go, in cui si procede gradualmente riempendo gli spazi lasciati vuoti e sottraendo posizioni all’avversario. 

L’espansione cinese in Africa è un esempio di questa strategia, mentre l’utilizzo dei canali della Belt and Road Initiative (Bri) sono uno strumento per la circolazione dello yuan che funge da leva della strategia geo-economica cinese, che nonostante il deficit e l’indebitamento delle banche locali e di grandi imprese rende la Cina molto attrattiva per gli investitori stranieri. 

Si potrebbe supporre che la tensione a internazionalizzare lo yuan sia la conseguenza delle pressioni politiche e finanziarie di chi vuole trovare nel medio periodo un sostituto del dollaro, mentre il Partito comunista non ha alcuna intenzione di allentare la presa totalitaria sull’economia cinese, che anzi sembra aumentare sfruttando a proprio vantaggio la crisi di molte grandi imprese. Il progetto egemonico cinese sembra in realtà puntare sulla graduale espansione della sua influenza in ambito regionale contribuendo a plasmare un sistema finanziario ibrido basato su accordi bilaterali e hub finanziari che faranno sembrare il Gold Standard e il Dollar Standard un retaggio del passato.

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