Il Governo francese ha inviato alla Commissione europea un lungo memorandum con la raccomandazione finale di una moratoria sulla transizione verde. Per la verità il gabinetto Bayrou è nato scricchiolante e la rappresentanza del Paese a Bruxelles è prerogativa del presidente Emmanuel Macron, però tanto resta: tanto più che le “tavole” della marcia ambientalista nel deserto delle energie fossili sono state scolpite proprio a Parigi dieci anni fa.
L’abiura della Francia – anzitutto a se stessa – giunge d’altronde poche ore dopo l’annuncio da parte del neopresidente Donald Trump che gli Usa intendono ritirarsi dagli stessi Accordi della Cop21: di cui proprio gli Stati Uniti di Barack Obama (e Joe Biden vice) erano stati i primi firmatari, in cima a una lista di 196 Paesi (tutti quelli membri dell’Onu). Che la transizione ambientale forzata e ideologica fosse un grave errore storico lo sperimentò per primo Macron, succeduto nel 2017 al socialista François Hollande, un anno dopo la prima elezione di Trump alla Casa Bianca.
La pretesa di punire sul piano fiscale i consumatori di energia fossile (la maggioranza delle famiglie e delle piccole imprese) scatenò i “gilet gialli” nelle piazze francesi ancor prima del Covid e della successiva inflazione da guerra e sanzioni. L’erosione della leadership di Macron – azzoppata forse definitivamente con l’avanzata delle destre alle elezioni europee e legislative dell’estate scorsa – è iniziata allora. Ma il presidente francese non ha mostrato un attimo di riflessione neppure quando, tre anni fa, è stato rieletto a fatica all’Eliseo. Negli stessi mesi il vicepresidente della Commissione Ue, il socialista olandese Frans Timmermans, stava già progettando finanziamenti anomali a Ong ambientaliste, pur di forzare la transizione verde. Non gli è servito a evitare, un anno e mezzo fa, una sconfitta epocale nel voto politico olandese stravinto dalle destre. E ora le rivelazioni sulle operazioni borderline di lobbying risciacquata di verde da parte dell’eurocrazia, ammorbano il già difficile debutto della Commissione von der Leyen 2.
Ma l’inizio di un vero e proprio “dopoguerra mondiale” non può far dimenticare le miopie dell’Europa che nei dintorni di Parigi si ritrovò poco più di un secolo fa per chiudere la prima di ormai tre guerre globali. È anzitutto curioso notare come data da allora l’ascesa degli Usa come superpotenza mondiale: senza le truppe e gli aiuti economici d’Oltre Atlantico l’Europa si sarebbe autodistrutta più di quanto già avvenne e Francia e Gran Bretagna non sarebbero state certe di prevalere sulla Germania sui campi di battaglia (esattamente come accadde poi fra il 1939 e il 1945). Il primo e più grave fallimento di quegli accordi di pace fu in ogni caso di non porre alcuna base per evitare lo scoppio in Europa di un nuovo conflitto mondiale. Che invece deflagrò dopo un ventennio e pose termine definitivo alla centralità storica del vecchio Continente e di tutti i suoi suoi “imperi”.
Il Presidente americano dell’epoca, Woodrow Wilson, nella sua famosa agenda di 14 punti suggerì nei fatti di ricostruire la pace quasi a prescindere dalla spaventosa guerra combattuta dal 1914 al 1918 (ma la stessa posizione aveva, sul piano economico, John Maynard Keynes, il più famoso economista del ventesimo secolo, fautore di un sostanziale azzeramento di tutte partite finanziarie aperte della guerra). Rimasero appelli inascoltati dai leader di un’Europa tornata subito rissosa, prigioniera dei suoi nazionalismi ottocenteschi.
Non ci fu quindi nessun “accordo”, ma solo condizioni punitive nei confronti della Germania (cui furono imposti la cessione para-medioevale del 10% del suo territorio e danni di guerra che impoverivano in partenza larga parte della popolazione). E nessuna attenzione reale fu riservata a quanto stava accadendo nell’ex impero zarista. Già tre anni dopo in Germania si accese un’inflazione infine letale e Adolf Hitler tentò il primo putsch. In Italia andò al potere il fascismo mussoliniano (anche sulla scia dannunziana della “vittoria mutilata” per l’Italia a Versailles) e la Russia sovietica entrò nel suo trentennio staliniano.
Ora il candidato cancelliere tedesco Friederich Merz ha preannunciato un “fronte europeo” da Parigi (in stato di sostanziale non governo) a Varsavia: la capitale del Paese che la Germania invase brutalmente all’inizio della Seconda guerra mondiale. Ma la Polonia è arroccata nella sua posizione di retrovia della guerra russo-ucraina quando Trump sta invece promuovendo un cessate il fuoco al più presto e l’avvio di una soluzione negoziata con la Russia. E fra i fini dell'”operazione diplomatica speciale” vi sarebbe anche l’isolamento dell’Italia, ritenuta troppo vicina alla nuova Amministrazione americana. Ma i gli eterni nazionalismi di Parigi e Berlino sono stati due occhi miopi dell’Europa anche dopo il 1945. Fino a brandire l’Ue come clava nei confronti di Paesi come l’Italia salvo chiedere da Bruxelles deroghe e moratorie “ad nationem”.
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