MINNEAPOLIS – George Floyd non è morto di coronavirus. Il mostro invisibile di americani se ne è già presi più di 100mila, ma non George Floyd, morto per un atto di eccessiva violenza perpetrato da un poliziotto. Un poliziotto contro cui esistevano già diciotto “complaints”, diciotto denunce per il suo discutibile comportamento professionale.
Sono arrivato in Minnesota da qualche giorno, dopo 26 anni filati di New York City. Questa volta, a differenza delle tante volte precedenti, sono arrivato per viverci. Sinceramente, conoscendo questi posti e questa gente non mi aspettavo come “benvenuto” un fattaccio del genere e tantomeno quello che ne sta seguendo.
Questo è un angolo “nordico & progressista” degli Stati Uniti d’America, terra di immigrati scandinavi e tedeschi, politicamente democratica, con un governatore democratico. Anche il sindaco di Minneapolis è democratico, il trentottenne Jacob Frey. E immagino che tanti di voi non sappiano neanche da che parte sia questo Minnesota, terra dei diecimila laghi, a meno che il vostro amore per lo sport vi abbia fatto scoprire i Timberwolves della Nba o i Vikings del football professionistico.
Quando si pensa al razzismo, da quello violento a quello strisciante che diventa mentalità senza che neanche te ne accorgi come fosse uno sviluppo naturale della coscienza di sé (e di quel che sono gli altri), non è certo il Minnesota a venire in mente. Si pensa al profondo Sud, a posti come l’Alabama o al Mississippi o alla Georgia, dove le ferite di quel peccato originale che si chiama schiavismo restano una piaga incurabile. È di pochi giorni fa, proprio in Georgia, l’uccisione di Ahmaud Arbery, giovane di colore che si è trovato a fare jogging dove secondo chi gli ha sparato non avrebbe dovuto essere.
Ma questi sono i tempi del coronavirus, tempi misteriosi in cui cosa sia l’altro per me diventa una quotidiana dolorosa domanda, e la mancanza di lavoro una penosa realtà. Così un arresto come quello di George Floyd diventa una violenza non necessaria, la violenza non necessaria porta una morte che non sarebbe dovuta esserci e la morte scatena un inferno in cui la protesta legittima finisce per generare anche lei frange di violenza non necessaria. E adesso, per il quarto giorno, a Minneapolis sono scene di guerriglia urbana che non si vedevano dalle riots di Los Angeles del 1992.
Tutto è cominciato con le folle pacifiche per le strade della città, una voce di lamento per la brutalità della polizia. Poi la scintilla, l’assalto a negozi, banche, a tutto, saccheggi e sciacallaggio, lacrimogeni, arresti, un distretto di polizia evacuato e dato alle fiamme. La scintilla della rabbia, o la scintilla della frustrazione, dell’impotenza, dell’esclusione, della mancanza di lavoro, della mancanza di significato, della mancanza di speranza.
Tutto si fa confuso, caotico, incendiario, giustizia e ingiustizia cortocircuitano e gli uomini della politica soffiano sul fuoco, non per spegnerlo, ma perché “gli altri” si brucino. Come sempre il maestro dell’arte della divisione, Donald Trump, indica la strada e twitta: “Non posso tirarmi indietro e stare a guardare quel che succede a questa grande città americana, Minneapolis. Una totale mancanza di leadership. O il debolissimo sindaco radical sinistroide Jacob Frey si dà una mossa e riprende il controllo della città o mando la National Guard a sistemare le cose …”.
I media non sono da meno. Mentre Cnn ci mostra l’arresto ingiustificato di un suo cameraman, Fox risponde con le immagini di uomini incappucciati che sfasciano bancomat a martellate. Ed ecco che la conclamata obiettività finisce ancora una volta in un invito a schierarsi.
Guardi quel che sta succedendo a Minneapolis e capisci che il virus non ci ha resi né più buoni né più intelligenti. Guardi quel che sta succedendo a Minneapolis, e sai che potrebbe succedere ovunque.
God Bless America!