È di pochi giorni fa la notizia che a Tony Iommi, chitarrista fondatore dei Black Sabbath, è stata diagnosticata una forma di cancro. Questo annuncio ci ha fatto riflettere sulla figura di questo guitar hero, forse non molto conosciuto dal grande pubblico, ma sicuramente di rilievo soprattutto fra coloro che hanno inventato e cesellato il vocabolario heavy metal.
È il 1970, l’anno del debutto discografico della band con l’album omonimo, Black Sabbath, appunto, nome preso in prestito da un film horror italiano di qualche anno prima.
La storia porterà il gruppo attraverso varie peregrinazioni e cambi di formazione, ma l’unico che resterà sempre in sella fino ai giorni nostri sarà proprio il mancino chitarrista di Birmingham.
Cominciamo ad osservare e ascoltare il suo stile chitarristico, tenendo presente un altro importante episodio: poco prima di lasciare il lavoro da operaio in fabbrica, Tony perse le falangi superiori di medio e anulare della mano destra (che essendo mancino, gli serviva per suonare sulla tastiera) e dopo un primo periodo in cui voleva mollare tutto, inventò un sistema di protesi che gli permise di continuare a suonare. Il primo pezzo è il singolo più famoso dei Black Sabbath, Paranoid, in una versione Live del 1970.
Un brano solido, massiccio, sostanzialmente senza assoli. Una specie di monolito, in cui la fa da padrone il potente riff suonato all’unisono da chitarra e basso.
Erano gli anni in cui l’hard rock stava esprimendo (o aveva appena espresso) i suoi alfieri più convincenti: Eric Clapton, Jimmi Page, Jimi Hendrix, Jeff Beck, Ritchie Blackmore. E Tony Iommi, che con il suo stile ruvido ed essenziale dava anch’egli il suo contributo.
Andiamo a scoprire ancora qualche elemento del suo essenziale stile chitarristico. Riff solidi, sinuosi, power chords, e un fraseggio, fondamentalmente pentatonico e non particolarmente spumeggiante, ma solido e vigoroso sia nel solo centrale che in quello che funge da coda del brano. Sempre nel 1970, Iron Man.
E augurando al vecchio Tony di uscire vincitore anche da quest’ultima battaglia, concludiamo con un’altra performance, in cui qualche anno dopo si percepiscono alcuni elementi in più della sua maniera esecutiva: pur sempre nell’alveo della pentatonica blues, un periodare più veloce, una maggiore scioltezza di esecuzione, una maggiore proprietà di linguaggio.
Long live Anthony!