Le foto di un saggio finale di chitarra alla Berklee School of Boston lo ritraggono di fianco a Pat Metheny. Mike era un allievo del college e Pat era appena stato chiamato da Gary Burton a insegnare, pur non avendo frequentato un solo giorno di College. Strani casi americani, due ragazzi quasi della stessa età, uno sul banco e uno in cattedra. Tanto per avere un’idea, potete vedere l’immagine a questo link.
Impostazione jazz quindi per Mike Stern, ma la chitarra che imbraccia fin da quei tempi giovanili è una Fender Telecaster, che lo accompagnerà per tutta la sua lunga e frastagliata carriera. Sì, perché pur essendo uno dei chitarristi più promettenti della fine degli anni Settanta, inizio Ottanta, Mike Stern ha dovuto fronteggiare non pochi problemi personali (specialmente legati alla tossicodipendenza) che talvolta gli hanno impedito di salire sul palcoscenico.
In ogni caso la sua attività comincia nel 1976 nientepopodimeno che con i Blood, Sweat and Tears, ottima palestra di quel funky che diventerà uno dei suoi territori preferiti. Poi l’incontro con Billy Cobham tre anni dopo e l’entrata nella Band di Miles Davis nel 1981 gli aprono la strada verso una serie di sfavillanti collaborazioni, che lo porteranno ad essere nominato Chitarrista dell’anno da Guitar Player nel 1993.
Ma incominciamo ad ascoltare qualcosa: una lunga improvvisazione su un blues che ci dà un primo saggio delle sue grandi capacità.
Che dire? Una proprietà di fraseggio impressionante, velocità, pulizia, non una sbavatura e la capacità di tenere incollato l’ascoltatore, pure in una lunga improvvisazione. Forse qualche indulgenza di troppo, verso la fine, a qualche fraseggio rock e a dei lick ad effetto un po’ troppo ripetitivi, ma tutto sommato cogliamo una ricchezza di espressione che tiene alta la soglia di attenzione.
Ma facciamo un passo indietro ed ascoltiamo Mike nel suo disco d’esordio, datato 1986 e realizzato con dei grandissimi compagni di avventura, fra cui Bob Berg – sassofono tenore, Mitch Forman – pianoforte, sintetizzatori, Mark Egan (già nel Pat Metheny Group) – basso, Dave Weckl – batteria, David Sanborn – sassofono alto, e in un brano (Mood swings, cercatelo, se volete) anche Jaco Pastorius al basso e Steve Jordan alla batteria. Insomma, il meglio di quello che in quegli anni veniva definito fusion, il tentativo di unire jazz e strumenti elettrici, di cui gli alfieri più rappresentativi furono i fantasmagorici Weather Report.
Bene, proiettandoci in quell’era ormai lontana (e sopportando magari alcune sonorità un po’ datate) ascoltiamo il pregevole tema e la bella improvvisazione di Little shoes.
Come tutti saprete, in rete c’è tanto da scoprire e i nostri suggerimenti sono solo la punta dell’iceberg di ogni artista brevemente descritto e indagato. Un’ultima suggestione e poi a voi la decisione per un’ulteriore approfondimento. IChromazone: un tema pazzesco, un unissono al fulmicotone fra la chitarra di Stern e il sax di Bob Berg, su una solida sezione ritmica; poi il volo delle improvvisazioni e la planata nuovamente sul tema, nervoso, scoppiettante, di grande effetto, grondante funky ad ogni secondo di esecuzione. La chiamavano fusion, e in certi casi era davvero buona musica.
Buon ascolto e alla prossima!