Ci sono Guitar Heroes che restano impressi nella memoria collettiva per un’unica, fondamentale apparizione, eppoi ci si ricorda di loro quando se ne vanno. Anche se nel mezzo c’è un’onesta, lunga, magari faticosa carriera. Alvin Lee ci ha lasciato a 68 anni poche settimane fa e non si può non dedicargli un breve ricordo. 

I Ten Years After, la band che fondò e in cui militò dal 1967 al 1973 era una band che partendo dal rock’n’roll aveva esplorato anche diversi altri territori di confine, con una certa preponderanza per il blues che in quegli anni, perlopiù nel Regno Unito ma anche negli USA si stava riprendendo a piene mani. Spina dorsale della band era naturalmente Alvin Lee con la sua Gibson 335 modificata con l’aggiunta di pick-up più potenti, per ottenere un suono più cattivo e potente. 

Non so precisamente a che cosa si riferisse il Ten Years After nel nome della band, ma molto probabilmente si intendevano i dieci anni passati dall’esplosione planetaria del rock’n’roll. La 335 era la chitarra di Chuck Berry e comunque uno degli strumenti più usati prima delle solid body. Lo stile di Alvin Lee era un’evoluzione virtuosistica del linguaggio blues-rock. La sua tecnica gli permetteva fraseggi veloci e puliti, la voce acuta e graffiante si inseriva nell’evoluzione del genere che si stava compiendo in quegli anni, in cui comunque il rock’n’roll, anche se talvolta strapazzato, trasformato, distorto e stropicciato, era ancora scandagliato e riproposto. Andatevi a cercare, come altro esempio, la versione live di Johnny Be Goode dell’americano Johnny Winter, nel 1970. 

L’esibizione immortale di Alvin Lee con i sui Ten Years After è quella del festival di Woodstock, agosto 1969, dove propone I’m Going Home, giro di blues a 12 battute, in cui incastona via via citazioni dal suo mondo di riferimento, come Blue Suede Shoes (celeberrimo brano di Carl Perkins, nato da una battuta di Johnny Cash) ma anche il Johnny Lee Hooker di Boom Boom. Il tutto incorniciato da una introduzione rimasta nei sogni di migliaia di chitarristi e che solo i più bravi riuscivano a stento ad imparare, un assolo al cardiopalmo e un ritmo tambureggiante, locomotiva sbuffante nella foga di arrivare a casa. Godiamoci questa decina abbondante di minuti spumeggianti, questo assalto sonico alla notte del popolo di Woodstock. Bentornato a casa, Alvin.