Succede a Verona, nei pressi della riva san Lorenzo. Succede che un uomo di 55 anni si senta male, abbia un infarto, circondato da passanti e turisti. Succede che chi se ne accorge chiami velocemente il 118 e che inizi l’attesa per i soccorsi. È allora che qualcuno, colpito da quanto sta accadendo, inizia a fotografare, qualcuno fa invece il video, qualcun altro si scatta addirittura un selfie. Succede che la cosa prenda così piede che il pronto intervento faccia fatica a spostare i curiosi e a farsi largo tra la folla. Succede che i tentativi di rianimazione durino per più di un’ora e l’uomo non ce la faccia, muoia. Ma per i presenti è stato solo uno spettacolo? L’invettiva moralista è dietro l’angolo. Quello che è accaduto certamente non è etico. Ma perché è accaduto? Che cos’è quel gesto che accade, nell’attesa e nell’impotenza, di tirare fuori il telefono e usarlo? Che cos’è quella goffaggine maleducata e irrispettosa che documenta tutto in modo morboso, fino a filmare la morte di un uomo? Che cos’è quel richiamarsi l’un l’altro a guardare quanto succede fino a perdere la percezione di quel che succede e dare alla propria smania di esserci e di sapere così tanto spazio da non sentire le sirene delle ambulanze, da non spostarsi, da non capire? Che cos’è tutto questo?
È la nostra reazione al nulla. Al nulla che sentiamo che ci assale in prossimità della vita che incalza, al nulla che sentiamo che ci tallona quando l’esistenza ci mette con le spalle al muro. Tiriamo fuori il cellulare perché con quel fare cerchiamo di rispondere alla nostra incapacità di stare.
Lo fanno anche i ragazzi quando a scuola sono nella noia o nell’imbarazzo di essere insieme. Lo fanno ormai in tanti a tavola, al punto che gli inglesi lo chiamano phubbing, snobbare l’altro in favore del telefono, e racconta la fragilità del guardarsi, del rimanere insieme nel silenzio, della fatica di percorrere tutta la strada che ti porta a uscire da te fino a considerare l’altro.
Dicono sia un esempio di profanazione, di profonda mancanza di rispetto. Chiunque di noi invece sa che è un sintomo di paura, di imbarazzo, di superficialità. E dichiara, meglio di tanti discorsi e teoremi, la nostra incapacità di vedere morire un uomo, la nostra incapacità di incontrarlo e di sentirlo vivere. Dichiara il terrore che in quello spazio vuoto tra noi e l’altro non abiti più nessuno: nessuna speranza, nessun mistero. Succede a Verona, succede nel cuore di ognuno di noi.