Il mesto risultato dei referendum abrogativi del 12 giugno, come tutte le consultazioni pubbliche che chiamano a raccolta l’elettorato, costituisce un bagno di realismo per tutti. Ed è un grossolano errore pensare che ciò costituisca una sconfitta per il partito della Lega in quanto, più degli altri, è sembrato esporsi nella campagna referendaria. Chi commette quest’errore compie una sostanziale sottovalutazione del problema e, soprattutto, continua a credere di vivere in un’Italia che da tempo non esiste più, almeno nelle dimensioni con le quali la pensa.
La prima considerazione che sembra imporsi è che siamo dinanzi ad un rifiuto che va molto al di là del presente referendum, e che si era già mostrato nelle consultazioni precedenti. In realtà, anche se i referendum di domenica 12 giugno fossero stati sostenuti da tutti gli altri partiti e ci fosse stato un intervento corale dei singoli leader, molto difficilmente si sarebbe arrivati a superare la soglia fatidica del 50%. La somma degli indifferenti e dei disamorati registra troppi nuovi ingressi per non configurarsi oramai come la vera maggioranza del Paese.
Tuttavia, prima di muoversi in termini di condanna verso l’indifferenza o la mancanza di senso civico, occorre cercare di comprendere le ragioni di una simile diserzione dal seggio referendario, riscostruendone le logiche anche, e forse soprattutto, quando non le si approva. Una simile operazione di comprensione costituisce uno dei frutti migliori di una società democratica e liberale. Comprendere le logiche dell’altro, pur non condividendole, è il muro maestro sul quale ogni società democratica vive e, soprattutto, si sviluppa.
Occorre allora osservare come da decenni siamo troppo interni ad una continua politica delle emergenze per non prendere atto di quanto il nostro Paese sia andato lentamente, ma anche inesorabilmente, logorandosi. Benché i partiti storici possano contare su salde basi elettorali e i loro leader non manchino di sinceri consensi da parte di quote non irrilevanti della popolazione, la loro somma non fa più la maggioranza. Non fa più maggioranza la politica: sia quella che si realizza all’interno del palazzo, sia quella che prende corpo nel Paese.
E tutto questo accade perché alla quota naturale di indifferenti, presente in ogni sistema democratico e ancora più visibile nelle democrazie parlamentari, si sono aggiunte le quote di quanti stanno assistendo, da decenni, al naufragio di un Paese sempre più danneggiato da patologie oltremodo note che tuttavia non riesce a superare.
È il caso in primo luogo della metastasi dei controlli burocratici che, se non riescono minimamente a scalfire il malaffare, sono invece estremamente efficaci nel bloccare ogni iniziativa di crescita, tanto nel settore delle opere pubbliche quanto in quello delle opere private. Ma è anche il caso della scuola, dove decenni di riforme e di riorganizzazioni dei metodi hanno finito con il produrre leve sempre più incolte di diplomati e di laureati, capaci di far emergere livelli imbarazzanti di ignoranza. Per non parlare della sanità, dove gli oltre trecento medici morti a causa del Covid hanno fatto emergere le sconcertanti inefficienze del nostro sistema di prevenzione dentro gli stessi nosocomi.
Ovviamente non c’è solo questo. Questi anni hanno anche mostrato le incredibili risorse del sistema-Paese, dalla qualità delle maestranze all’impegno degli amministratori (è il caso del Ponte di Genova) alla generosità del nostro volontariato, alla capacità di abnegazione e di sacrificio di migliaia di operatori, proprio là dove ci si sarebbe attesi la fuga e il disimpegno. Questi anni, grazie all’impegno delle associazioni e degli operatori culturali, ci hanno portato anche ad una sempre maggiore consapevolezza della nostra cultura, dello splendore che ci circonda e del quale siano gli immeritevoli eredi. E ciò è tanto più significativo quanto più non riguarda solo lo splendore del patrimonio artistico e architettonico, ma concerne l’intero territorio.
Ma sta proprio in questa consapevolezza la ragione principale che porta alla disaffezione. La consapevolezza che l’eccezionalità delle maestranze, l’abnegazione del volontariato, la qualità degli operatori, degli amministratori e degli imprenditori, l’estensione e la ricchezza del territorio non bastino a spostare il macigno dell’inefficienza e del degrado, non può che produrre sconcerto e ulteriore delusione.
Il solo ripetere, nel 2022, analisi e critiche che potevano essere proferite anche venti o trent’anni fa, non può che creare amarezza e disaffezione. Da queste due sensazioni scaturisce la più semplice delle proteste, quella dell’indifferenza verso l’azione politica e verso il principale strumento che questa ci mette a disposizione nei sistemi democratici: quella del voto nella cabina elettorale.
Sembrano restare in piedi solo le emozioni. Quelle per un personaggio popolare ingiustamente detenuto; per un innocente beffato dai cortocircuiti di una medicina che, potendo solo alleviare ma non guarire, lo trascina nel corridoio di una vita che non è più vita; per un popolo aggredito e bombardato. Ma ciascuna di queste emozioni – ed è un vero dramma – vive solo nella misura in cui il circuito mediatico la ripropone, anche in forme sempre più rudi e violente. Con il risultato di avere una società incapace di muoversi se non sollecitata dallo spettacolo del dolore, e dal dolore che deve trasformarsi in spettacolo.
Nel circuito mediatico della riproduzione delle emozioni, tutto sembra scomparire, anche la soluzione ai problemi strutturali che sembriamo incapaci di risolvere. Ciò ripropone il circuito dell’emergenza, che è poi quello più distante per farci produrre una buona politica, un recupero di analisi chiare del quale tutti sentiamo il bisogno.
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