“Civilian bloodshed will help Hamas”, lo spargimento di sangue civile aiuterà Hamas. Sono queste le parole che di prima mattina rimbalzano da un lato all’altro del globo e che certificano una volta per tutte la strategia di Yahya Sinwar, leader politico di Hamas: usare il sangue dei civili per aumentare lo sdegno verso Israele in modo da spingere la comunità internazionale a piegare Tel Aviv alle ragioni del terrorismo. Fin dallo scorso 7 ottobre, giorno del terribile attacco di Hamas ad Israele, i corpi – quelli uccisi e quelli in ostaggio – hanno smesso di essere storie e desideri e sono semplicemente diventati simboli, pedine di un gioco più grande. E questo è stato da subito vero sia per Hamas, la cui causa ha sempre meno a che fare con la libertà e la dignità del popolo palestinese, che per Israele, la cui repressione sanguinaria ha preteso di ottenere con la violenza ciò che non si è saputo custodire con la politica e la sicurezza.



Da allora in tutto il mondo si moltiplicano le attestazioni di solidarietà allo Stato israeliano e, sempre più frequentemente, il supporto alla causa di Hamas da parte di cortei di giovani che, negli Stati Uniti, sono arrivati ad occupare pacificamente le principali università. Ci si schiera per una ragione, per un’idea, per una causa, ma non ci si schiera per un corpo. In questo difficile puzzle mediorientale c’è il partito degli israeliani e quello di Hamas, ma non c’è il partito dei corpi martoriati e straziati dalle violenze del terrorismo e dalle bombe dello Stato ebraico.



Quando si prendono le parti di un’idea, immediatamente tutto diventa lecito per affermarla e ogni esistenza è ridotta a simbolo di qualcosa da eliminare, di qualcosa tremendamente sacrificabile. L’ideologia, questa ossessione ostinata per le idee, ci rende tutti più cattivi, più violenti, più poveri. Serpeggia sui social, esplode nelle guerre, si afferma nei pensieri di chi vorrebbe ridurre l’essere umano a ciò che pensa e a ciò che sente.

Questa stagione viene da lontano: essa abbraccia e caratterizza tutta l’età contemporanea che inizia, appunto, con un rivoluzione che decide di decapitare il re alla ghigliottina per affermare la libertà e la democrazia dell’Assemblea Nazionale parigina. Da allora, da quei giorni di fine XVIII secolo, abitiamo un tempo in cui il corpo – la carne – sono stati progressivamente espunti dalla narrazione politica collettiva per assumere sempre di più una dimensione privata: sul corpo e sulla carte è sovrano l’io e lo Stato si impegna a mantenere questa sovranità. A patto che quel corpo e quella carne siano disponibili alle esigenze ideologiche dello Stato o di un gruppo, di un manipolo di terroristi. La vita perde un significato assoluto e diventa qualcosa di simbolico, qualcosa di strettamente collegato alla sua utilità per il disegno del capo o del dittatore di turno.



Hamas si spiega compiutamente in questo quadro di “modernizzazione islamica”, ma anche le politiche di Israele si comprendono con maggiore efficacia dentro questa dialettica tra singolo e comunità. Tutto è dunque sacrificabile, tutto può essere sfruttato. Per difendere un’idea si può usare chiunque. Perché in fondo non c’è niente che valga davvero qualcosa se non quello che voglio io.

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