“La società è il regno del principe di questo mondo”, scriveva la grande pensatrice francese Simone Weil nella sua raccolta di pensieri composti tra il 1940 e il 1942, poi raccolti e ordinati dopo la sua morte. È una frase tipica della Weil; eloquente e poetica, ma anche dogmatica nel tono: dove regna il principe di questo mondo, là regnerebbe la menzogna. Visione che non può essere ignorata (come sempre tentano di fare le “anime belle” di professione), ma che è troppo cupa e unilaterale. E questi giorni di massacri ne forniscono una prova: vogliamo reagire alla disperazione e allora ci aggrappiamo alle analisi, ai cosiddetti “fatti”. Solo che poi entriamo nel terreno scivoloso che (non) divide i fatti dalle interpretazioni.
Nella stessa giornata in cui il cronista che nel giorno dell’assalto a Israele ribadiva, nella trasmissione televisiva più popolare negli Stati Uniti, l’onnipresente frase sull’attacco “completamente imprevedibile”, alcuni di noi ricordavano di aver visto quello stesso reporter, circa una settimana prima, “incorporato” (embedded) come testimone in un video autorizzato dall’esercito israeliano, che mostrava un plotone di soldati impegnati in una notturna e cruenta caccia all’uomo, nei vicoli di Gaza. Difficile allora evitare la deduzione che si sapesse, che qualcosa stava bollendo in pentola. E magari si pensava, con una non implausibile analisi (terribile logica delle guerriglie) di lasciarla bollire, in attesa di una provocazione che avrebbe a sua volta consentito una reazione schiacciante; ma poi, la pentola è esplosa.
E politicamente, che cosa c’era di tanto imprevedibile? Certi gruppi che fanno parte (volenti o nolenti) dello Stato israeliano si sono sentiti scavalcati dall’inizio delle trattative tra l’Israele ufficiale e l’Arabia Saudita e hanno voluto buttare qualcosa sul tavolo dei negoziati, per avere un qualche ruolo in essi; ma la brutalità della mossa gli si è rivolta contro (uno dei tanti deludenti, o saggi che dir si voglia, insegnamenti della politica è che le analisi costi/benefici non funzionano mai).
Ben prima dei nostri tempi (siamo agli inizi del Novecento) il premio Nobel britannico Rudyard Kipling, autore di grandi romanzi come Kim, chiamava col nome di Grande Gioco gli intrighi politico-spionistico-militari che si svolgevano allora in India. E oggi assistiamo come “atterriti notai” (espressione del critico e saggista Luigi Russo, che allora scriveva nel contesto dell’Europa sconvolta negli anni Trenta) al terribile Grande Gioco delle vaste guerre civili del Terzo millennio, che insanguinano l’Europa da Oriente (guerra civile fra Ucraina e Russia, la quale ultima è anch’essa, non è inutile ricordarlo, parzialmente parte dell’Europa, e dove si oppongono due nazioni che fino a qualche tempo fa erano una sola), fino alle coste del Mediterraneo. Dove la situazione è ancora più intricata, perché c’è uno Stato ufficialmente esistente che dichiara guerra non a un altro Stato (che non esiste), ma a una parte della sua stessa popolazione.
Il gergo politico-giornalistico corrente tradisce qualcosa nel momento stesso in cui la esprime, parlando di “azioni irresponsabili”. Ma la retorica, come ben sapevano i filosofi antichi e sanno gli psicanalisti moderni, è una struttura tanto efficiente da poter divenire una trappola. La situazione di “irresponsabilità” (per esempio quella di una popolazione di un Paese che non ha diritto alla cittadinanza di quel Paese) è a due tagli: dall’uno si legge come impotenza, dall’altro come autorizzazione alla ribellione.
E allora, risulta confermata l’idea della società come ambito essenzialmente diabolico? Ma no, demonizzare genericamente la società umana non serve: questa creatura storta è in continua via di riaggiustamento. E direi che dobbiamo imporci di vederla così, e di non pensare esclusivamente nei termini di un Grande Gioco. Perché nelle strade e nei campi scorre sangue non cinematografico; i morti, sono autentici; i lutti, veri. E se il sangue fa sempre orrore, il sangue sparso fra coloro che sono quotidianamente prossimi nell’esistenza è particolarmente orribile.
Da un lato, tutto ciò rafforza per contrasto il senso di pace; dall’altro, intensifica la sensazione di (ancora una volta) impotenza. L’indispensabile attività della pacificazione è pur sempre un’attività di/fra potenze; in quanto tale, necessita di certe formalità e gerarchie, di certe asserzioni di autorità, di tempi lunghi ecc. Insomma, rischia di essere qualcosa come una mimesi della guerra; anche se – bisogna ripeterlo – non possiamo fare senza questo ingrato, dunque vitale, lavoro (per esempio, il fatto che il Vaticano sia spesso un po’ snobbato come agente di pace dai cosiddetti esperti della politica è la miglior dimostrazione della sua affidabilità).
Ma la pace in senso proprio è un’altra cosa: è semplicemente (!) il desiderio della pace. Che sorge imprevedibilmente, nel giorno pieno o nel dormiveglia, e che può anche durare e scomparire (non ci sono regole) in pochi istanti.
I credenti chiamano questo, di solito, preghiera; i non credenti ne parlano forse come di fervido desiderio. Parola che i più sofisticati analisti della psiche considerano con fiero materialismo, come una pulsione oscura e implacabile che scorre terra terra; ma la cui etimologia, invece, punta verso il cielo. Certo, l’affidamento al desiderio non giunge a un risultato che si possa quantificare o precisare, perché, a differenza del lavoro della pacificazione, l’esercizio del desiderio fervente è un’esperienza individuale, modesta, quasi casalinga. Eppure senza di esso tutto l’affaccendamento politico-diplomatico rischia di perdere senso.
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