La pace è possibile. Ma occorre la volontà politica di percorrere questa strada per superare le contrapposizioni ideologiche e garantire anche ai palestinesi la possibilità di far crescere le loro famiglie e avere un futuro. Come aveva fatto a suo tempo Rabin.
Don Giampiero Alberti fa parte del gruppo di dialogo islamico-cristiano della diocesi di Milano e ha conosciuto nel tempo la realtà della Palestina, anche quella di Gaza. L’attacco sferrato nei giorni scorsi da Hamas contro Israele è un gesto senza speranza, che peggiora la situazione e compromette la vita di tante persone. Invece la pacificazione è possibile e per iniziare questo percorso bisogna avere il coraggio di cominciare ad affermare questa possibilità.
Come ha reagito il mondo islamico all’attacco di Hamas a Israele?
Le reazioni che ho ascoltato questa settimana sono di grande preoccupazione. C’è una illogicità in questi attacchi: le rivendicazioni non possono essere avanzate con le guerre. Per questo mi trovo a disagio nel tentativo di capire la situazione. Facendo così Hamas rischia di perdere tutto e compromettere tante persone, tanti innocenti. Quando ho operato in Palestina cercavamo di portare pace a Gaza, penso ad esempio alle piccole sorelle di Calcutta che sono attive in quell’area. Questo attacco, invece, stravolge le cose, blocca tutto e porta una sofferenza maggiore. Conosco bene il piccolo tratto di terra di Gaza, che si può attraversare velocemente, sono 41 chilometri da una parte all’altra, anche se la mia frequentazione risale a qualche anno fa. A Gaza mandavamo sempre aiuti anche attraverso alcune suore della Carità di San Vincenzo de’ Paoli: da Betlemme, da Betania, da Gerusalemme, una volta alla settimana.
Quando visitava Gaza che impressione aveva della gente che ci abitava, del modo in cui si viveva?
Non c’è un’impressione unica. Le prime volte una trentina di anni fa c’era una situazione abbastanza serena, la parrocchia funzionava. Poi via via, anche se non ci è mai mancata la voglia di aiutare chi aveva bisogno e di dare ai ragazzi la possibilità di studiare, ho sempre visto la tensione crescere, anche per arrivarci.
In questi anni ha conosciuto molte famiglie musulmane, anche quelle che abitano in Italia: come giudicano l’attacco di Hamas?
Ho parlato con due responsabili musulmani di alcuni centri di Milano e sono molto preoccupati, anche per i palestinesi che sono qui. Da quello che vedo io, almeno a livello di responsabili, non ci sono estremismi. C’è la voglia, comunque, di far conoscere tutt’e due le facce della medaglia della questione, per far capire meglio la situazione. Io vivo sempre facendo riferimento a quello che mi suggeriva il cardinal Martini incontrandomi laggiù. Mi diceva: “Tu devi intercedere”, che vuol dire cammina in mezzo. Significa cercare di non essere di parte e portare il bene.
A volte si rischia di avere una visione distorta del mondo islamico: è possibile allacciare un dialogo vero? E attraverso quali modalità?
In Palestina so che il dialogo è ancora difficile, sono ancora qualche passo indietro. A Milano abbiamo instaurato un dialogo bello, profondo, nel tentativo di capirci e aiutarci.
A livello internazionale però questo dialogo manca.
Il problema vero sono i palestinesi mandati in quel fazzoletto di terra, persone a volte anche problematiche. Hanno sofferto e hanno reazioni difficili da comprendere, dettate dalle condizioni in cui hanno vissuto. Ho in mente l’episodio in cui si erano barricati nella Basilica della Natività, a Betlemme, nel 2002. Li hanno fatti uscire uno alla volta e li hanno mandati a Gaza. Quando ci sono certi problemi li mandano lì.
Gaza, quindi, viene usata come una specie di confino?
Potrebbero mandare le persone anche nei territori, a Hebron o a Ramallah, ma non lo fanno. Li portano a Gaza: le persone più difficili le hanno sempre isolate là.
Questa contrapposizione tra israeliani e palestinesi dura da quando è stato creato lo Stato di Israele: c’è un modo per uscirne?
Non penso che si possa parlare solo di contrapposizione. Quando c’era Rabin io ero a Betlemme e ho potuto vivere dei momenti di pace. Questo mi fa dire che se ci sono delle persone a livello politico, nell’accezione più ampia della parola, che sono capaci di tessere rapporti, di proporre e qualche volta anche di realizzare dei valori come riconciliazione, perdono, collaborazione, le cose possono cambiare. Penso al problema del lavoro. Molti palestinesi trovano un impiego a Gerusalemme, nello Stato di Israele, e per loro è uno strumento vitale, che aiuta a realizzarsi in modo civile. Bisogna cominciare da qui.
Quindi ci sono stati momenti in questi anni in cui israeliani e palestinesi sono riusciti a impostare una convivenza tra loro?
Rabin ha voluto e saputo creare delle condizioni di pace e di collaborazione. Purtroppo sappiamo che è stato ucciso per mano dei suoi connazionali. Occorre una volontà politica di perseguire il dialogo. Innanzitutto annunciando questa possibilità, dicendo che ci può essere. Molti dicono che sarà impossibile. Invece la pace è possibile. I fattori determinanti non sono solo ideologici: occorre la possibilità di lavorare, di far crescere le famiglie e i bambini, di mandare i figli a Gerusalemme o nei territori a studiare. C’è bisogno di libertà di movimento, cosa che attualmente non è possibile.
(Paolo Rossetti)
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