Hans Küng è morto. Il teologo cattolico più discusso della seconda metà del novecento è tornato a casa. Di origine elvetica, nato nel 1928, Küng aveva deciso, giovanissimo, di dedicare la propria vita alla teologia, divenendo ben presto docente di dogmatica a Tubinga, la più prestigiosa delle facoltà tedesche. Lì aveva voluto al suo fianco un altro giovane teologo per il quale si era speso non poco: Joseph Ratzinger. Dai tempi di Tubinga, dove collaborarono assieme per ben tre anni, i due diventarono le due facce della stessa medaglia.



Entrambi fortemente interpellati dal destino della fede nel mondo occidentale, aprirono due strade importanti e decisive: lo svizzero nella messa in discussione dello status quo della Chiesa, a partire da un indimenticato pamphlet sull’infallibilità papale, il tedesco nell’immedesimazione totale con la dottrina della Chiesa stessa, in una ricerca di cambiamento e di novità dal di dentro della teologia tradizionale.



Entrambi riformisti, entrambi rivoluzionari, uno scelse la critica, l’altro l’abbraccio. Il primo rifiutò un ruolo attivo nel Concilio Vaticano II, relegandosi nell’angusto spazio dell’opposizione, il secondo fu così brillante come consigliere in quel Concilio da divenire punto di riferimento per un intero mondo teologico.

Küng il dissidente, l’eretico, l’indomabile critico, decise di tirarsi fuori da quel rapporto vivo che avrebbe potuto cambiare davvero la Chiesa e rimase praticamente solo, genio senza fratelli, profeta senza un vero popolo. Eppure le sue numerose intuizioni ecclesiologiche, ecumeniche, interreligiose furono dei veri e propri punti di non ritorno per il dialogo con le altre confessioni cristiane e le altre fedi religiose: non abiurò mai il cattolicesimo, ma rifiutò fino in fondo di far parte del sistema. Divenne il cecchino teologico di Giovanni Paolo II, inviso alle autorità vaticane, stereotipato nel ruolo di progressista sempre più sull’orlo di uno scisma, nemico del conservatorismo polacco che – a suo giudizio – abbandonava la cattolicità al misticismo sottraendole il diritto più importante, quello di essere governata.



L’unico vero sussulto lo ebbe proprio nel 2005 quando il suo antagonista per eccellenza – Joseph Ratzinger – divenne Papa. Furono le sue le parole più dirompenti, le sentenze più clamorose che invitavano i teologi e i cristiani di tutto il mondo a guardare al nuovo pontificato sotto la luce della speranza. Anni dopo Küng, che non aveva risparmiato critiche all’indirizzo del pontefice bavarese, confessò di non essersi affatto pentito di quell’afflato e di quell’entusiasmo: le dimissioni dell’11 febbraio 2013 bastarono a confermarlo nella stima e nella profonda cordialità col Papa che non avrebbe mai potuto riammetterlo, ma che egli sempre sguardò con segreto orgoglio.

Molti pensarono che Francesco si sarebbe avventurato in questa vecchia disputa fra europei per riabilitarlo come docente dopo gli anni duri delle condanne del Sant’Uffizio, ma il Papa “dalla fine del mondo” non volle e non poté tornare così tanto indietro. Si limitò ad attestati di concordia, stima e amicizia che non portarono Küng da nessun’altra parte se non nel Pantheon dei grandi e in quello delle occasioni mancate. La sua figura rimase sempre divisiva e le sue istanze depotenziate dalla frattura da lui stesso causata proprio a Tubinga.

Adesso, dopo i fasti della terra, probabilmente guarda questo tempo dal cielo, consapevole che l’errore più grande, in fondo, non è pensare liberamente, ma vivere in una solitudine tale che nessun pensiero possa – in definitiva – diventare fecondo, trasformarsi in strada. Egli è certo che l’amico di una vita lo vorrà ricordare, anche senza forze, al suono del pianoforte nella profonda nostalgia per una sinfonia di primavera che non ha mai avuto davvero il coraggio di essere suonata. Ma che adesso, dinnanzi a Dio, troverà la simpatia e l’insondabile mistero di tutti i suoi perché.

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