Ammettiamolo: qualcuno, leggendo della scomparsa del centenario diplomatico e consigliori pluripremiato e plenipotenziario Henry Kissinger (1923-2023), avrà pensato alla figura del politico italiano Giulio Andreotti (1919-2013): congenerazionali nella formazione, in alcuni intendimenti, persino negli anni di massima influenza e potere. Trattati loro malgrado da bandiere per gli spezzoni di classe dirigente e di opinione pubblica che in essi si identificavano. Capitò prima a Kissinger, quando George Bush jr. cercava a suffragio delle sue scelte politiche l’apporto di una commissione d’inchiesta sull’11 Settembre. Bussò alle porte del Nobel per la pace del 1973: una “pace” contestata e/o contestabile quasi come il premio ad Obama nel 2009.
Le polemiche fioccarono, Kissinger rinunciò pentendosi anzi in un primo tempo d’aver accettato. Andreotti fu candidato alla presidenza del Senato, contro Franco Marini, quando il centrosinistra prevalse con una delle maggioranze più improbabili ed eterogenee della storia repubblicana. Candidato di bandiera, di testimonianza, di minoranza? Si interessò poco, passava tra i banchi con la leggiadria di chi non voleva metterci bocca, e nel mentre si divertiva.
Certo Kissinger divenne sin dagli anni Settanta, forse perché schermato dal vero agone politico-elettorale col quale pressoché non si misurò, il braccio più temuto della presidenza Nixon. Anticomunista, forgiò tutta una mentalità americana (sia repubblicana sia democratica) del difendere la potenza statunitense nel mondo. All’intervento armato diretto, al muovere apertamente guerra, antepose l’uso delle sfere d’influenza – economiche, politiche, militari, monetarie – per orientare e “raddrizzare” gli Stati ostili. Non è un caso che oggi forse lo studino più a Pechino che a Washington. Decisionista e giusrealista, sì, ma del Secolo breve. A proposito: fu lui negli anni Settanta ad aprire alla Cina, nella convinzione che la bilateralità potesse disinnescare l’influenza russa. Allora scelta giusta o col senno di poi autolesionista?
E poco si è imparato di questo tatticismo, che tuttavia tante volte travolse i diritti umani in nome della realpolitik: all’Occidente Mosca sarebbe stata forse più utile scomoda a tavola che non nelle braccia e tra le fila degli antagonisti.
Se il Novecento è finito con la storia (solo quella del mondo per blocchi, quelli di allora: non i nuovi), il mondo venuto a seguire ha dimostrato di non sapere né far morire né seppellire il suo avo.
In fondo, Kissinger, se la rideva. Magari quasi quanto Andreotti in quei giorni sconclusionati a palazzo Madama. La coperta dei forti di ieri è sempre più corta, ma i secoli si vincono più con le coltellate che con le sportellate.
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