C’è ancora chi finge di trattare, c’è sempre il disarmante ottimismo americano (ma bruciano ancora di vergogna le dichiarazioni dei portavoce della Casa Bianca, nelle prime settimane del 1975, sull’andamento della guerra in Vietnam, che sostenevano promettesse bene: le truppe Usa furono invece costrette ad abbandonare in tutta fretta l’ultima roccaforte, Saigon, poco dopo, il 30 aprile), e le delegazioni (tra l’altro ben poco diplomatiche, visto che sono affollate dai vertici dei rispettivi servizi d’intelligence) continuano a darsi appuntamenti che si sa in partenza saranno inconcludenti (Hamas in una stanza, israeliani in un’altra).



Come scrivevamo una settimana fa, tutto fa pensare che una tregua dei combattimenti oggi in Medio Oriente non interessi veramente a nessuno. Men che meno a Netanyahu, che ieri ha ordinato alle IDF (si suppone sulla base di informazioni dei servizi) un massiccio attacco aereo preventivo mirato ai lanciatori di Hezbollah che avevano pianificato di sparare razzi su Tel Aviv alle ore 5.00, attacco che ha scatenato ovviamente la reazione dal sud del Libano, da dove sono stati comunque lanciati 320 razzi verso undici siti israeliani.



Tel Aviv ha dichiarato lo stato di emergenza, l’autorità aeroportuale israeliana ha annunciato che l’attività aerea all’aeroporto Ben Gurion sarà sospesa a causa della situazione di insicurezza, il portavoce dell’esercito Daniel Hagari ha avvisato “i civili che si trovano nelle aree in cui Hezbollah sta operando di allontanarsi immediatamente”, e il sito israeliano Ynet informa che l’esercito ha sventato un attacco nella zona di Gilot, vicino a Tel Aviv, dove si trovano il quartier generale del Mossad e la base dell’unità 8200, corpo d’élite dell’intelligence.



Anche sul fronte nord, dunque, è guerra, e non a bassa intensità e nemmeno troppo asimmetrica, visto l’enorme arsenale su cui possono contare i miliziani Hezbollah (il “partito di Allah”), la forza paramilitare islamista sciita continuamente finanziata ed equipaggiata dall’Iran: circa 30-40mila soldati con 150mila missili (anche a lungo raggio, come i Zelzal-2 e Fateh-110 iraniani), carri armati ed artiglieria missilistica. Gli Hezbollah sostengono che cesseranno gli attacchi se a Gaza si raggiungerà il cessate il fuoco, ben sapendo che quell’obiettivo di fatto resta irraggiungibile, almeno ad oggi.

Si dice che a creare l’impasse sulle trattative siano le posizioni opposte sui due corridoi, il Philadelphi lungo il confine tra Gaza ed Egitto e il Netzarim che divide in due la Striscia di Gaza. Ma non è vero, o comunque non si tratta solo di questo. Hamas sa bene che più riuscirà a resistere e logorare il nemico più si garantirà un futuro possibile, sempre sostenuto da Iran e Paesi satelliti. Netanyahu sa altrettanto bene che se riuscirà a cancellare dalla faccia della terra Hamas e i palestinesi sodali al gruppo terroristico potrà conservare una parvenza di leadership, puntellata dalla destra messianica ebraica e dal Likud. Tanto per essere chiaro, il premier israeliano ha dichiarato: “Israele non lascerà in nessun caso il corridoio Philadelphi o il corridoio Netzarim, nonostante le enormi pressioni che riceve sia in patria che all’estero”.

Ma dove sono dunque questi corridoi e perché sono così importanti per Israele? Lo chiarisce bene Allison Kaplan Sommer sul quotidiano israeliano Haaretz. Il corridoio Philadelphi (Philadeplhi road) è solo un altro nome per il confine tra Gaza ed Egitto. Il corridoio – a volte chiamato la strada di Filadelfia – è largo circa 100 metri e si estende per 14 chilometri (8,6 miglia) sul lato di Gaza del confine e include il valico di Rafah con l’Egitto. “La scelta del nome Philadelphi è casuale: era il nome in codice delle Forze di Difesa Israeliane per la zona demilitarizzata tra Egitto e Gaza, istituita con il trattato di pace del 1979, frutto degli accordi di Camp David”.

L’Egitto chiama questa zona il corridoio di Salah Al-Din, dal nome del Saladino, il sultano di Egitto e Siria che sconfisse i crociati a Gerusalemme nel 1187. Nel 2005, nell’ambito del ritiro di Israele da Gaza, Israele ed Egitto avevano firmato un accordo per il dispiegamento di 750 agenti di polizia egiziani che avrebbero dovuto presidiare il percorso dopo che Israele avesse completato il suo ritiro dalla Striscia. Un accordo che mirava ad impedire l’ingresso di terroristi, armi e altri tipi di contrabbando a Gaza attraverso i tunnel già esistenti. Ma i controlli egiziani si sono rivelati inutili e ben poco governati, dipendenti dall’alternarsi delle situazioni politiche al Cairo.

“Dopo che Hamas prese il controllo di Gaza nel 2007 dall’Autorità Palestinese, Israele impose un blocco sulla Striscia e l’Egitto aumentò le restrizioni sui movimenti da e verso Gaza. Di conseguenza, nel corso degli anni la rete di tunnel di contrabbando si è espansa drammaticamente sia in termini di numero che di dimensioni, diventando abbastanza grande da consentire il passaggio di veicoli. Malgrado gli sporadici interventi, i tunnel non hanno mai smesso di essere una minaccia per Israele”.

Lo scorso maggio funzionari israeliani hanno dichiarato che le truppe israeliane hanno scoperto più di 20 tunnel, oltre a 82 punti di accesso a tali tunnel. “Da quando Hamas ha attaccato il 7 ottobre le comunità israeliane vicino a Gaza, il governo Netanyahu ha affermato che Israele deve mantenere il controllo sul corridoio, compreso il valico di Rafah, come unico modo per impedire ad Hamas di riarmarsi. Ma Hamas chiede un ritiro completo di Israele dall’area come condizione per un accordo sugli ostaggi. Di conseguenza, americani, egiziani, qatarini e israeliani hanno avviato un brainstorming nel tentativo di colmare il divario tra il mantenimento del controllo israeliano e la restituzione del corridoio ad Hamas”. Tra le ipotesi anche il dispiegamento dei Caschi blu dell’Onu.

Diversa la situazione per il corridoio Netzarim, la strada di 7 chilometri (realizzata durante la guerra in corso) che taglia in due la Striscia di Gaza e si estende dal confine israeliano al Mar Mediterraneo, un corridoio menzionato per la prima volta in un piano israeliano dei primi anni 70 denominato “Il piano delle cinque dita”, che mirava a dividere in due la Striscia per consentire il controllo militare israeliano su Gaza. “Un ministro israeliano ha dichiarato alla CNN all’inizio di quest’anno che il corridoio Netzarim permetterebbe di viaggiare dal Kibbutz Be’eri – una delle comunità israeliane attaccate il 7 ottobre – fino alla spiaggia in soli sette minuti”. Netzarim è il nome dell’insediamento israeliano che sorgeva dove ora si trova il corridoio, dando al progetto della nuova strada il sapore di una rioccupazione. “Ai palestinesi è vietato l’accesso a questa strada, che contiene basi israeliane per le forze che controllano gli spostamenti dei palestinesi tra nord e sud. Queste basi servono anche come trampolino di lancio per le operazioni israeliane. Si ritiene che il corridoio sia un elemento importante di un piano a lungo termine di Israele per tagliare Gaza in due e monitorare una futura zona cuscinetto tra Gaza e Israele, progettata per prevenire attacchi come quello del 7 ottobre”.

Questi, dunque, i termini apparenti dello stallo: Israele che vuole mantenere il polso sulla Striscia controllando quei corridoi, e Hamas che insiste che una condizione per qualsiasi accordo è il ritiro israeliano da entrambi i valichi Philadelphi e Netzarim. Ma è facile intuire che se anche si raggiungesse un compromesso su queste zone, sopraggiungerebbero altri ostacoli. Il Medio Oriente è abituato a simili, assurdi alti e bassi, mentre la popolazione continua a soffrire e morire.

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