Inutile negare che l’affermarsi della tecnologia digitale ha rivoluzionato – tra le altre mille applicazioni – anche il mondo della fotografia.
Le possibilità offerte dalla fruizione immediata del risultato e dalla facilità con la quale lo si può condividere hanno di fatto causato la quasi estinzione della fotografia basata su supporto chimico (pellicola) oggi relegata ad una nicchia relativamente esigua di rispettabilissimi sostenitori, che non dimenticano e valorizzano alcuni vantaggi del sistema chimico.
Ma sta di fatto che la stragrande maggioranza delle persone che fotografano oggi, lo fa utilizzando il sensore e non il rullino.
Preso atto dell’attuale orientamento, nel corso dei relativamente pochi anni in cui la fotografia digitale s’è affermata, il marketing delle grandi case produttrici ha enfatizzato oltremodo l’importanza di uno solo degli aspetti tecnici che caratterizzano un sensore, ovverosia la quantità di pixel.
Il pixel è – in parole povere – l’unità minima di informazione, il punto del quadro impressionista, la tessera del mosaico.
Quindi si dà per scontato che quanti più pixel ci sono, tanto più l’immagine finale potrà essere dettagliata, definita, e perciò stampabile in formati maggiori.
Da lì la corsa ai megapixel è stata inarrestabile: dalle prime fotocamere con un paio di milioni di pixel (2 megapixel), in vendita fino a non molti anni fa, si è passati in meno di un lustro a sensori con densità via via crescente, fino a raggiungere gli attuali 12-14 Megapixel, ormai comuni su numerose fotocamere compatte “punta e scatta”.
L’enfasi portata dagli uomini di marketing delle varie case costruttrici è stata tale che l’uomo della strada oggi valuta la qualità di una fotocamera esclusivamente in base al numero dei pixel, dando quindi per scontato che una fotocamera da 8 megapixel sia qualitativamente inferiore ad un’altra che ne abbia – per dire – 10, ed è disposto a pagare cifre considerevolmente maggiori per accaparrarsi un sensore in cui stiano ben assiepati milioni e milioni di elementi fotosensibili.
Tale concetto tuttavia, come tutte le parzializzazioni, è errato in quanto non tiene conto di altri fattori essenziali ad effettuare una valutazione della qualità d’immagine facendo espresso riferimento alle cosiddette “compatte” senza sistema di mira reflex e senza possibilità di intercambio delle ottiche. Queste ultime sono quindi pensate per un’utenza che delega volentieri agli automatismi ogni scelta e che desidera solo inquadrare e scattare.
Senza dilungarci in dettagli tecnici tanto precisi quanto esuberanti ai nostri fini, proviamo a prendere in considerazione almeno tre di questi fattori: le dimensioni del sensore, il “rumore” elettronico ed il potere risolvente degli obiettivi.
La stragrande maggioranza delle compatte digitali ha un sensore di dimensioni pari a 1/2.5 pollici: questa misura esprime la diagonale del rettangolo sul quale si formerà l’immagine. Tradotto in nostrani millimetri, la diagonale di quel rettangolo (qualunque sia il rapporto tra i lati, di regola quattro a tre, come nei televisori) misura circa 10,16 millimetri.
In sostanza, ciò significa che il sensore di una compatta digitale ha una superficie più o meno pari a quella dell’unghia di un dito mignolo.
Alcune compatte digitali hanno sensori appena più grandi (diciamo 1/1.6 pollici), il che si traduce in una diagonale di circa 15.9mm, valore che non cambia in alcun modo la sostanza del problema.
Ma il problema qual è?
È intuitivo che se per stipare nella stessa area (dimensioni del sensore) il quadruplo dei pixel del modello precedente, le dimensioni di ogni singolo fotosito dovranno essere quattro volte più piccole di prima. Per esempio, una fotocamera da 3 megapixel ha fotositi grossomodo quattro volte più grandi di un’altra fotocamera, con sensore delle medesime dimensioni, ma dotata di 12 megapixel.
La chimera indotta dalla corsa all’aumento dei megapixel, unita alla necessità di mantenere misure ridotte dei sensori (per garantire minori costi di produzione e dimensioni tascabili degli apparecchi) ha comportato quindi l’intuibile conseguenza di un’estrema miniaturizzazione della singola unità fotosensibile, della tesserina del mosaico.
Ma ogni elemento sensibile è in grado di “raccogliere” fotoni in proporzione alle proprie dimensioni: più è grande, meno luce occorrerà per stimolarlo a dare un segnale, e viceversa.
In una parola, un pixel più grande è di per sé più “sensibile” alla luce, o se vogliamo, a parità di intensità luminosa, un pixel più grande dovrà subire una minore amplificazione del segnale rispetto ad uno più piccolo.
E riducendo in maniera indiscriminata le dimensioni dei singoli pixel, occorreranno amplificazioni sempre maggiori.
Ma l’amplificazione esagerata del segnale causa un disturbo, un cosiddetto “rumore” che di fatto porta ad una minore qualità complessiva del risultato: si pensi banalmente a quando si aumenta al massimo il volume d’una radiolina a transistor: l’audio ne risulta distorto ed in un certo senso snaturato.
Da ciò si ricava che è sostanzialmente inutile aumentare oltre un certo livello la densità dei sensori, perché, lungi dall’ottenerne vantaggi, se ne ricavano piuttosto inconvenienti, soprattutto quando si fotografa con luce ambiente scarse situazione in cui l’amplificazione spinta del segnale diventa inevitabile, con le conseguenze negative che abbiamo visto e che nelle immagini danno luogo ad un pesante effetto cosiddetto “sgranato” ed a una risposta cromatica inattendibile, perché il rumore di fondo genera segnali casuali che il sistema di decodifica interpreta e traduce come “veri” sull’immagine.
Naturalmente ci sono algoritmi, software che automaticamente riducono la percettibilità di tale fenomeno: con la non trascurabile conseguenza che, mediando su aree omogenee le informazioni presenti, riducono di fatto spesso pesantemente la risoluzione finale dell’immagine.
In sostanza, quindi, si ottiene, con maggior spesa, lavoro e complicazioni, ciò che con un sensore meno “popolato” ma con pixel di maggiori dimensioni, si sarebbe ottenuto più agilmente.
Non è un caso che le fotocamere con meno densità ottengono risultati strabilianti anche in condizioni di illuminazione scarsa: necessitano di minor amplificazione e va da sé quindi che il disturbo è ridotto o inesistente.
E veniamo infine al potere risolvente degli obiettivi.
Un esempio spero aiuti a comprendere il concetto generale: immaginiamo il nostro occhio come un obiettivo, che debba leggere, dalla stessa distanza, un testo bizzarramente scritto con caratteri enormi, normali e microscopici disposti casualmente nelle varie parole che compongono lo scritto. Un uomo dalla vista acutissima sarà in grado di leggere e comprendere tutto, uno dotato di una vista normale leggerà soltanto i caratteri enormi e quelli standard, facendosi un’idea del senso generale, un terzo piuttosto miope riuscirà a vedere soltanto i caratteri più grandi e difficilmente riuscirà a comprendere anche solo l’argomento di cui si tratta.
Se al posto dell’occhio mettiamo l’obiettivo, che “proietta” l’immagine sul piano focale (il sensore) sarà chiaro che solo un obiettivo di altissima qualità sarà in grado di valorizzare informazioni talmente minute da essere distinte tra un pixel e l’altro. Altrimenti proietterà un’immagine i cui punti saranno maggiori delle dimensioni del singolo pixel, il che equivale quindi al risultato che si otterrebbe utilizzando un minor numero di pixel di maggiori dimensioni unitarie.
E siccome un obiettivo dal potere risolvente tale da consentire un effettivo utilizzo di tutte le informazioni (pixel) disponibili sugli attuali sensori ad altissima densità costerebbe migliaia di euro, di fatto le compatte digitali – che hanno come target un’utenza poco disponibile a spendere più di poche centinaia di euro per i propri ricordi familiari – si ritrovano con una risoluzione a dir poco esagerato ed esuberante rispetto alle potenzialità complessive del sistema fotocamera-obiettivo, che è quello del quale occorre tener conto per valutare l’effettiva qualità del prodotto.
La soluzione, perciò, può andare in due direzioni: diminuire la densità di pixel presenti sugli attuali “microsensori” installati sulle fotocamere digitali compatte (senza pensare ai telefonini, per i quali i concetti sopraesposti valgono in maniera esponenzialmente maggiore), oppure “rassegnarsi” a quegli apparecchi, più grandi, pesanti, costosi e voluminosi, che rispondono al nome di reflex ad ottica intercambiabile, e che (guarda caso) utilizzano sensori di dimensioni assai maggiori (diciamo dai 15×22 ai 24x36mm escludendo gli apparecchi a dorso intercambiabile per impieghi in studio).
Ma questa è un’altra storia…
(Rolando Guatta)