“Ascoltare un disco è come andare a letto con una foto di Brigitte Bardot”, disse il grande direttore d’orchestra Sergiu Celibidache. Qualcosa viene perso nella traduzione dal vivo al disco, qualcosa di vitale. La mia tesi è che la stessa dinamica opera in molti altri ambienti creati dalla tecnologia, e che ciò che viene perso a volte è l’essenziale.
Sono ormai anni che discuto di questo tema. So bene che è facile essere frainteso e tacciato di luddismo. Molto spesso l’obiezione principale è “ma se quello che tu dici è vero, allora devo buttare via il cellulare e il computer, come minimo”. È un’obiezione lecita, e la affronterò nella mia conclusione. Ma spesso è un’obiezione che impedisce di riflettere con adeguata serietà sui cambiamenti in atto. Don Luigi Giussani ha scritto: “Incominciamo a giudicare: è l’inizio della liberazione”. Sono ormai 10 milioni gli iscritti italiani a Facebook: voglio arrischiare un giudizio, e, perché no, lanciare un allarme.
Quasi tutti coloro che affrontano la critica della tecnologia cominciano dicendo che è uno strumento neutrale, che può essere usato per il bene o per il male. “Internet non impone il modo in cui deve venire usato, è come un martello o un coltello che può fare del bene o del male”. Si insiste poi moltissimo sulla capacità di internet di mettere e tenere in contatto delle persone: proprio in ciò consiste la novità rispetto al suo volto iniziale, che era dominato da una comunicazione dal centro alla periferia. Poi si notano certi comportamenti devianti e si fa del moralismo: “Certo, bisognerebbe arginare queste derive….”
Qualcuno riflette un po’ più a fondo e dice: “Il web non fa altro che rispecchiare i desideri nascosti degli uomini. Ciò che si trova in rete è ciò che si trova negli uomini. È solo più facile condividere le cose anonimamente”. E così si finisce per dire che il web è una cosa neutrale, usata a volte in modo cattivo, e che bisognerebbe essere più buoni.
Eppure rimane un’inquietudine riguardo alla frattura che si registra fra questa fila di ragionamenti e certe notizie di cronaca. Siamo sicuri che non ci stia sfuggendo qualcosa? Come mai registriamo un continuo aumento della violenza più efferata (i ragazzi che danno fuoco a un barbone, le sparatorie nelle scuole…)? Perché un ragazzo si impicca quando la mamma gli toglie il cellulare? Come mai la televisione registra un drastico calo di qualità, messo clamorosamente in evidenza qualche mese fa, quando Eluana è stata oscurata a favore del Grande Fratello? Come mai il cuore dei telespettatori è così incallito, perlomeno nella valutazione che ne fanno i direttori delle reti? E poi il fatto che sta all’origine di questo articolo: tra gli universitari che conosco, si usa dire: “Stasera ci vediamo su Facebook”, e si chatta dalla propria cameretta più volentieri che uscire a prendere una birra insieme. Cosa significa tutto ciò?
Non potrò rispondere esaurientemente a tutte queste domande. Ma vorrei almeno proporle esplicitamente, e vedere se non è proprio in quella premessa, la presunta neutralità del mezzo, l’origine della frattura tra la teoria e la realtà del mondo tecnologico.
Per iniziare a giudicare, propongo una serie di articoli. Oggi, l’antipasto. Domani, un primo piatto leggero: una piccola indagine esperienziale, per vedere se la tecnologia è neutrale di fatto o solo in teoria. Poi un secondo piatto di carne, necessariamente un po’ consistente: qualche accenno di filosofia, per mostrare brevemente da dove nasce questa idea di neutralità e per offrire qualche altro modo per leggere l’esperienza. Per ultimo, l’amaro: uno sguardo (schietto come il Fernet) alla realtà di Facebook.