Giancarlo Violetto si definisce padre di quasi ottanta figli, anche se alcuni di essi hanno (o avevano) un’età superiore alla sua. Un’apparente contraddizione superata dalla realtà dei fatti: il 57enne, con la moglie Marina, sono genitori in una casa-famiglia a pochi passi da Cittadella, in provincia di Padova, inserita nella rete della case-famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi. Dal 1992, quando “davanti al prete il sì non lo abbiamo detto uno all’altra, ma a una terza persona, che si chiama Cristo”, in casa Violetto si sono avvicendate decine di persone, tra figli biologici e altri accolti a braccia aperte.



Dal loro matrimonio, nel 1993, è nato il loro primogenito Flavio (purtroppo deceduto in un drammatico incidente con il parapendio, ndr), poi è iniziato un incessante viavai: “Da subito – ha raccontato l’uomo, di professione giardiniere, sulle colonne del quotidiano ‘Avvenire’ –, abbiamo impostato la nostra famiglia secondo il principio per il quale prima ci sono le persone, poi tutto il resto. Mia moglie Marina è rimasta a casa dal lavoro, poi invece l’ho fatto io quando sono arrivati figli che richiedevano assistenza 24 ore e la notte la reggevo meglio io”.



GIANCARLO VIOLETTO: “PATERNITÀ SIGNIFICA DARE UN LEGAME”

Come racconta Giancarlo Violetto su “Avvenire”, non sono mancati i momenti difficili, come quando è arrivata la piccola Mariangela, bimba abortita al quinto mese di gravidanza, ma sopravvissuta all’aborto e nuovamente rifiutata dai genitori biologici: “Lei è stata il nostro lockdown – ha asserito –. L’essere umano corre, corre per non pensare alla vita e alle paure apparentemente insormontabili, ma i figli come Mariangela ti bloccano al loro capezzale e allora devi fare verità dentro di te”. Mariangela è morta nel 2011 dopo 5 anni di zero parole e grandi sorrisi e questo testimonia come la paternità aperta all’accoglienza richieda un cambiamento: “Per me è stata una grazia essere padre di tante persone, proprio a cominciare da quelle che il mondo ritiene scarti, che sono lì e non ti parlano, ma ti costringono a starci e a meditare sul senso della vita”.



Alla base di una paternità, però, deve esserci sempre un legame: “L’esempio non basta, molto prima occorre dare una motivazione per la quale valga la pena vivere da onesti, poi la scelta sarà loro. Se non do a mio figlio niente cui aggrapparsi e dire ‘sì, nonostante tutto vale la pena’, non funziona. Credo proprio che il ruolo paterno vada proprio in questa direzione“.