Dopo le molte stroncature in tempo reale, può essere stimolante ragionare sullo show di Beppe Grillo da Fabio Fazio in termini di servizi resi alla causa della democrazia, così bistrattata di questi tempi. Contributi ipotetici, forse preterintenzionali o addirittura malintenzionati alla lettura dell’ultimo decennio di storia nazionale.



Grillo si è presentato come “reo confesso” di aver reso “l’Italia peggiore”. Nessun leader politico – non solo italiano, non solo contemporaneo – si è mai accusato (e tanto meno scusato) di un tale reato storico: non lo fecero neppure i gerarchi nazisti a Norimberga. Il fondatore di M5s ha potuto e voluto farlo perché la sua leadership politica è sempre stata estremamente anomala: resa costantemente equivoca e sfuggente dallo stesso protagonista, un’ultima volta l’altra sera nel suo “brodo primordiale” televisivo.



Grillo ha sempre in fondo tenuto a distanza – se non rifiutato – il consenso delle folle, torrenziale fin dai primi giorni: fin dalle piazze dei “risparmiatori traditi” di Parmalat. Non è diventato parlamentare – o addirittura premier – perché non aveva i pieni requisiti di onorabilità, ma sempre lasciando credere di non volerlo. Ha candidato – e fatto vincere – il suo candidato “peggiore”: il giovane e improbabile Luigi Di Maio, accantonando una figura più populisticamente strutturata come Alessandro Di Battista. Ha manipolato in solitaria il “suo” movimento, orfano di Gianroberto Casaleggio (lui sì un pioniere della tecno-politica); ma ha pure lasciato che M5s venisse manipolato dopo la vittoria del 2018. Giuseppe Conte non era – e non è mai stato – un pentastellato “grillino”; e la sua parabola – dal governo con la Lega a quello col Pd – sembra confermare quanto poco “grillino” sia stato il quinquennio di apogeo di M5s. Quanto quindi di oscuramente “comico” abbia attraversato le due ultime legislature: compresa quella iniziata nel 2013, in cui M5s era già il primo partito italiano.



Un leader politico non può mai dire di aver scherzato, un comico sì: scherza per mestiere. È gravissimo quando qualche cortocircuito della storia porta un comico a essere “leader con pieni poteri” (ogni riferimento al presidente ucraino Volodymyr Zelensky è casuale e non voluto). Ma un giullare di corte che non entra mai nel Palazzo dalla porta principale – salvo minacciare sempre di sventrarla con l’apriscatole – può sempre permettersi di prendere in giro l’imperatore, salvo rischiare sempre di eccedere e di venire punito (come accadde a Sebastian de Morra, il più celebre dei nani ritratti da Goya nella corte di Filippo II).

Grillo non sembra sfuggito neppure a questa sorte e forse è stato voluto – a Che tempo che fa – anche l’accenno polemico al processo in corso contro il figlio per presunta violenza sessuale: “Perché forse altri non tengono famiglia, non hanno fatto e non continueranno a fare di tutto per proteggere un congiunto con ogni mezzo da un Pm?”. Ancora una volta un “comico di strada” può inveire contro tutto e contro tutti (un leader politico no ed è vero che un picaro qualsiasi non avrebbe avuto accesso al salotto televisivo per eccellenza, il più politicamente corretto di tutti). E così via.

Se Grillo ha voluto “restituire” al Paese quel gigantesco aborto politico che è stato M5s – senza danni eccessivi all’ancora giovane e fragile democrazia italiana – forse ha fatto un piccolo piacere ai propri connazionali: che chissà se hanno mai distinto veramente la comicità ligure – sempre truce e arrabbiata – dall’avventurismo politico. Se invece Grillo ha tentato un definitivo “falò delle vanità” (le sue) bruciando in pubblico un decennio di vita nazionale in fondo “a prescindere” da lui, può darsi che abbia fatto loro un favore più grande, convincendoli che la loro Repubblica costituzionale è stata più forte di Grillo negli anni dieci e venti del ventunesimo secolo, così come è stata più forte del terrorismo rosso o del golpismo nero alla fine del ventesimo. Il grillismo può essere così consegnato agli archivi come “incidente di percorso”: con la raccomandazione di indagare sul perché in un Paese fondatore della Ue in un ventennio si forma una bolla che poi scoppia, stavolta fortunatamente da sola.

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