Il mondo della pace è di nuovo in guerra. Non ci sono altre parole per descrivere due fenomeni tipici della più stretta attualità. In un primo senso, è in guerra (in conflitto permanente e strisciante) il mondo di chi si proclama per la pace: molti di questi opinionisti si comportano da aristocratici del pensiero, da scribi delle sole pacificazioni possibili. Senonché è proprio questo atteggiamento che moltiplica l’animosità, l’astio e la contrapposizione. In un senso assai più profondo, è in guerra il mondo sorto dalla pace, tra il 1943 e il 1948.
Un mondo che ha prosperato minimizzando ed esternalizzando la guerra ha scoperto di non averne mai davvero fatto a meno, né ai suoi angoli più distanti, né nel cuore dell’Europa, che, mercé il processo di integrazione comunitaria, aveva fatto vanto di aver garantito una certa pace almeno all’interno dei suoi confini.
La pace praticata dall’Unione Europea, nonostante i Nobel e le intenzioni, è però una pace di carta. In campo geopolitico, il suo approccio suona alle altre grande potenze mondiali come un attendismo calcolato, poco risolutivo. E oggi, con l’invasione russa in Ucraina e il pantano di mancate soluzioni e morti in crescita, le si rimprovera di non avere una posizione terza alcuna: trainata dall’Alleanza atlantica, ma incapace di chiudere la porta a tutti i sistemi non democratici. Un bel problema: un problema non tanto nuovo nella storia del pensiero politico e giuridico, quello dell’Europa e quello della guerra.
I due competitori della proposta teorica sul diritto di guerra sono considerati Thomas Hobbes e Ugo Grozio, probabilmente tra i più influenti pensatori del XVII secolo. Qui mette conto dare un’avvertenza preliminare. Quando la critica, la storiografia e la storia delle istituzioni isolano due contendenti – due posizioni estremamente polarizzate – ciò risponde solo in parte a differenze radicali, e assai più spesso a una certa quanto inevitabile comodità espositiva. Ovunque, in un settore del diritto, c’è grande competizione tra posizioni differenti, appena si legge ci si rende conto non che gli estremi si tocchino, ma che in fondo quegli estremi hanno i loro punti (dichiarati o non dichiarati) d’intersezione.
Giusto per fare due esempi, basti qui guardare al tema del femminismo nel diritto anglosassone: studiose dagli anni Settanta ad oggi, con proposte diversissime (chi più orientata al liberismo e alla libertà negoziale, chi più interessata al diritto di famiglia e alla libertà sessuale), una volta approfondite esaustivamente, dimostrano di avere almeno in parte linguaggi comuni, argomenti comuni, sfondi d’epoca e cultura ancora più simili.
Così pure John Rawls e Robert Nozick nella giustificazione dei poteri dello Stato al tempo della liberaldemocrazia: figli di culture e impostazioni non per forza contrapposte, che i veri temi di divisione trovano non tanto nella definizione dello Stato o della disobbedienza, ma nella qualificazione dell’intervento pubblico in economia; variamente illegittimo per Nozick, utilizzato a fini di ridistribuzione da Rawls.
E ora eccoci di ritorno a Ugo Grozio e Thomas Hobbes. Nella nostra comune percezione, l’uno è teorico della pace, il maestro tollerante del De Iure Belli ac Pacis, l’altro è lo strano contrattualista–despota, fautore del patto tra i consociati che però crea lo Stato leviatano, il “corpo di altri corpi”, costituito dalle membra dei suoi sudditi. C’è indubitabilmente del vero in entrambe le etichette. Grozio si avvicina alla tolleranza, la studia, la propugna, la teorizza, la vede nascere. Cerca di darle vestiti appropriati: da avvocato le mette vicina la prosperità, il rifiuto della guerra per fiaccare i commerci dei rivali; in età più adulta la ritrova nell’ecumenismo, nel dialogo tra cristiani contro le guerre di religione. E per parte propria Hobbes considera effettivamente il patto sociale una via d’uscita dalla perenne belligeranza dello stato di natura, quello in cui si è tutti lupi contro i lupi, per dare tuttavia poi vita a un’autorità, un organo, un sovrano che sembra munito di poteri inauditi: sol perché garantisce protezione dalla paura.
La questione singolare è che Grozio non rifiuta mai integralmente la guerra (anzi, si sforza di arrivare a una cornice di giustizia e legalità tra gli Stati per il diritto di fare guerra) e che a propria volta Hobbes non esclude mai che quel sovrano investito dal patto sociale possa essere non per forza il despota, il truce tiranno, il Crono divoratore, bensì un’assemblea o un monarca illuminato o un consiglio di savi scelto per i suoi meriti. La verità è che ciascuno dei due è figlio della sua cultura e delle sue letture; dei suoi scopi, forse, prima ancora che dei suoi strumenti.
Grozio ha alle spalle – anzi, di fianco, perché tra i due filoni sussiste una tenue contemporaneità, una slavina di tempi solo lieve – l’elaborazione possente dei grandi canonisti spagnoli. Costoro recano addosso, inconsapevoli, un paradosso: sono i migliori giuristi della cristianità dopo il Concilio di Trento, quello chiamato (impropriamente) della Controriforma, e contemporaneamente sono i primi a vedere i semi di un tempo nuovo. Difendono la soggettività giuridica originaria degli indigeni, non rinnegano (come l’illuminismo napoletano e milanese) l’esistenza e talvolta l’evidenza storica della tortura ma la avversano, vogliono superare la schiavitù anche se non faranno mai davvero a meno delle relazioni gerarchiche, capiscono che limitare la guerra e accrescere la pace passa indiscutibilmente dal definire bene le sole condizioni in cui sia giusto farla, la guerra: in tutti gli altri casi non la si deve fare e se la si fa sappiamo sin dall’inizio che è ingiusta.
Grozio assorbe questi spunti con un elemento ancora più interessante: checché se ne dica in una letteratura più recente, non fa mai l’apologeta delle guerre che ha visto o di cui ha sentito parlare. Metodologicamente le sue opere sono molto “olandesi”, peraltro: non è il sapido Machiavelli del Principe o dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, che infarcisce le sue campagne teoretiche di aneddotica politica italiana. I riferimenti scottanti e insistiti alla sua attualità sono pochi; è una teoresi immersa nel tempo, ma non per forza nella cronaca. E Hobbes, se è assolutista, assolutizza soprattutto l’elemento antropologico della “paura”, dando vita a quella dottrina dello Stato che identifica l’esercizio del potere col controllo della paura.
Fuori da questi elementi, ogni tentativo di tirare i due per la giacchetta per far loro giustificare la crisi politica delle Nazioni Unite o le esercitazioni militari nei dintorni di Taipei o l’Iraq di ieri e la Bosnia di ieri l’altro è un tentativo di strumentalizzazione molto fuori dalla lettera dei due grandi trattati del “Seicento politico”. Diciamoci piuttosto la verità. Questo nostro andare sempre a scomodarli ci fa scudo dell’indicibile nel nostro cuore (e dei nostri interessi, se parliamo di governi): la guerra non piace a nessuno. Non essendo però riusciti realmente mai a estrometterla dalle relazioni politiche profittevoli, ci troviamo costretti a dire che in alcuni casi guerra, sì, dobbiamo farne e quella che facciamo è in ogni caso guerra giusta. Così, la guerra che non piace a nessuno, se giusta, diventa a tutti gradita: non più la guerra in sé, ma la guerra particolare. La guerra che voglio combattere io. La guerra che piace e serve a me, chiunque io sia. Rispetto a questa malcelata viltà, forse, ai giorni nostri servirebbe un Archiloco guardingo che butta lo scudo e corre a rifugiarsi nel piacere delle mani di Neobule. Chissà…
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