Hong Kong ripiomba in una nuova drammatica spirale di proteste e violenze. Ieri mattina, nel corso degli scontri tra manifestanti e polizia, un agente ha sparato un colpo di pistola ferendo gravemente al ventre un giovane di 21 anni. Poche ore dopo, un uomo, dopo aver litigato con i manifestanti, è stato dato alle fiamme, perché ritenuto troppo vicino alle posizioni cinesi. E ora che la città – ha commentato il leader del Movimento degli ombrelli, Joshua Wong – “è caduta in uno stato di polizia”, con la tensione nuovamente alle stelle, si possono riaprire scenari ancora più drammatici, fino al possibile intervento diretto di Pechino? Anche la governatrice Carrie Lam rischia il posto? E questa radicalizzazione dove e in cosa può sfociare? Lo abbiamo chiesto a Francesco Sisci, profondo conoscitore della Cina.



A Hong Kong la polizia ha sparato contro un manifestante, ferendo un ragazzo di 21 anni. Nella stessa giornata i manifestanti, dopo una discussione, hanno dato fuoco a un cittadino ritenuto troppo pro Pechino. Intanto, secondo Joshua Wong, il leader del Movimento degli ombrelli, la città “è caduta in uno stato di polizia”. Come si spiega questa radicalizzazione?



Innanzitutto, non direi che la città è caduta in uno stato di polizia: che significa poi questa affermazione? Non è stato proclamato il coprifuoco o lo stato di assedio.

La situazione è tornata però molto tesa, non crede?

La situazione è orrenda e dimostra che la polizia ha ormai i nervi a fior di pelle, è spaventata, oppure cerca la provocazione ed è stanca di dover continuare a cercare di gestire una situazione a cui non è preparata e che evidentemente non sa gestire. Quindi, qualcuno nella polizia non ce la fa più.

E allora?

O questi elementi della polizia vengono individuati, processati e puniti o la situazione si incancrenisce. Allo stesso modo, però, quando dei manifestanti radicali reagiscono a uno scontro verbale dando fuoco al loro nemico verbale, che non usa violenza, che è già stato picchiato, vuol dire che anche tra i dimostranti siamo fuori da ogni parametro di civiltà. E in Cina quelle immagini dell’uomo briciato temo che faranno molta impressione. Quelli che danno fuoco a quest’uomo negano di essere cinesi e dicono di essere “hongkonghesi”. In tal modo invitano all’odio il resto dei cinesi in Cina.



Senza almeno una sponda in Cina come si fa a calmare la situazione a Hong Kong?

Sembra di vedere lo scontro fra opposti estremismi nell’Italia degli anni Settanta, in cui la sinistra radicale sperava in azioni violente che istigassero la reazione violenta dello Stato. In realtà, quello che accadde è che la classe operaia, la classe media, che in un primo momento aveva simpatizzato per il movimento, poi se ne è distaccata.

Succederà la stessa cosa a Hong Kong?

E’ possibile.

E’ a rischio la posizione del governatore Carrie Lam?

Il governatore Carrie Lam ha davanti a sé un lavoro difficilissimo. Il suo compito è improbo. C’è qualcuno che saprebbe fare meglio nel mediare tra Cina e Hong Kong? Al momento non vedo alternative. E quindi non vedo neanche la possibilità di sostituirla.

Circolano voci, sempre ricorrenti, di un intervento più diretto di Pechino a Hong Kong. Che ne pensa?

Al momento attuale lo escluderei, anche perché Pechino non ha fatto annunci in questo senso. E poi, perché ora? E’ chiaro che i dimostranti radicali sono sempre più isolati. Quindi, se Pechino cambiasse passo a Hong Kong, non lo farebbe per problemi nella ex colonia, ma per questioni ben più ampie.

Nell’annuale riunione del Plenum del Partito, una decina di giorni fa, Xi Jinping ha ribadito che “Hong Kong è parte di un’unica Cina” e che “la priorità è difendere la sovranità e la sicurezza del paese”. Che cosa significano queste parole in concreto?

Non lo sappiamo per ora, ma certo non indicano che ci sarà un intervento diretto. Certo, qualora i dimostranti dovessero imbracciare le armi e cominciassero a sparare, potrebbe scatenarsi una situazione diversa. Ma anche in quel caso non dobbiamo automaticamente pensare a carri armati per le strade di Hong Kong.

Su Hong Kong, come su Taiwan, potrebbe riaccendersi un duro scontro con Trump e con gli Stati Uniti?

Hong Kong e Taiwan sono casi diversi. Pechino ne è consapevole e certo non vuole avvelenare ulteriormente la situazione a Taiwan. Lo stesso vale con gli Stati Uniti. Quindi, ad oggi, nonostante gli ultimi episodi molto violenti, mi pare che ci siano ancora margini di manovra. Nelle prossime 24 ore, a mente più fredda, potremo rendercene conto meglio. La classe media, però, che all’inizio aveva sostenuto la protesta e in questi mesi si era sfilacciata davanti alle crescenti violenze, oggi potrebbe ritirarsi. Ciò non significa che la classe media appoggia o appoggerà le autorità. La polizia che non sa gestire la folla e che si presta ad azioni gratuite e provocatorie, ma non è punita, cambia il patto sociale del territorio. Qui le forze dell’ordine avevano un’altra tradizione, che si sta via via perdendo. Se Pechino non recupera consensi positivi, potrà anche isolare i violenti, ma non riuscirà a recuperare la città.

Che posizione dovrebbero tenere sulla vicenda Hong Kong la Ue e l’Italia? E’ giusto astenersi?

L’Italia ha trattato spesso la Cina con grande ignoranza e superficialità. Il governo dovrebbe capire bene cosa succede e poi su quella base pensare a cosa fare o dire. Spesso, invece, si decide di agire o di prendere posizioni senza conoscere. Così di una cosa sola si è certi, di sbagliare.

(Marco Biscella)