«Era una vecchia statua pericolosa e che rischiava di cadere. È stata messa al riparo in un magazzino»: le autorità di Hong Kong hanno risposto così alla rimozione improvvisa avvenuta nella notte tra il 22 e il 23 dicembre del “Pilastro della Vergogna”, l’opera scultorea che rendeva omaggio alle vittime della protesta pro democrazia di Piazza Tienanmen del 1989. Come è noto, l’inversione di tendenza nella ex città-stato di Hong Kong nei rapporti con la Cina è ormai esteso ad ogni livello, con la mano lunga della dittatura comunista che pian piano elimina o nasconde tutto ciò che riporti alla mente una qualche possibile contestazione alla “grande” Repubblica Popolare.
Il “Pilastro della Vergogna” era stato posto all’interno della Università di HongKong dal 1997: una scultura in rame, opera dell’artista danese Jens Galschiot, ora è finita in un magazzino perché ufficialmente «era a rischio». In realtà è anni che le autorità filo-cinesi cercano di rimuoverla dal centro dell’ateneo, temendo che nel cuore dell’educazione del Paese si possa sviluppare quel senso di avvertenza-memoria per il totalitarismo militare e ideologico che le vittime di Tienanmen hanno dovuto subire. Ma a dimostrazione di come in Cina (e non solo) la “mano” del regime è tutt’altro che diminuita, ecco la “cancel culture” in salsa cinese pronta a mettere a tacere per un po’ la verità.
LA CINA E LA “CANCEL CULTURE” SULL’IDEOLOGIA COMUNISTA
Non solo il “Pilastro della Vergogna”, ad essere stati rimossi ad Hong Kong nella medesima notte altri due monumenti in ricordo di Piazza Tienanmen (tutti e tre casualmente a rischio danni e crollo?!): si tratta della statua “Dea della Democrazia“, copia di sei metri della figura allegorica eretta nella stessa piazza Tienanmen di Pechino durante la protesta pro-democrazia, prima della sanguinosa repressione del 4 giugno 1989. È stata rimossa dall’Università cinese di Hong Kong (Cuhk), opera dell’artista cinese naturalizzato americano Chen Weiming, che alla notizia ha subito protestato sui media; medesima sorte è toccata anche alla stele commemorativa, opera dello stesso Chen, dall’università Lingnan. L’evidente falsità delle motivazioni addotte dalle autorità statali non possono nascondere quanto invece emerge con chiarezza: come è noto, in Cina le commemorazioni di piazza Tienanmen sono vietate per legge. Con il giugno 2020 sono divenute a rischio anche in Hong Kong, ufficialmente per motivi sanitari anti-Covid: in realtà come hanno ben evidenziato le ultime elezioni-farsa in Hong Kong, il potere comunista di Pechino non sembra più avere resistenza nella ex colonia inglese, al netto delle mere battaglie umanitarie senza alcuna conseguenza pratica “imbracciate” dall’Occidente. «Un Paese, due sistemi», si diceva un tempo a Hong Kong in riferimento ai rapporti con la Cina: oggi si vede solo un sistema, quello ideologico-totalitario-nazionalista del regime di Xi Jinping. Fa ancora più impressione a questo punto rileggere la poche parole filtrate da Jimmy Lai, l’editore del giornale anti-cinese “Apple Daily” chiuso la scorsa estate perché in opposizione al potere centrale di Pechino, arrestato e condannato a 13 mesi di carcere per aver partecipato il 4 giugno 2020 proprio ad una veglia in ricordo della strage di Tienanmen. «Se ricordare quei morti è un crimine, sono orgoglioso di condividere la gloria di quei giovani che hanno versato il loro sangue», scrive Lai. Impossibile dargli torto.