All’alba della Guerra Civile americana, nel lontano 1859, l’America bianca cerca uno spazio dove vivere. Lunghe carovane di coloni viaggiano a ovest, per trovare casa, o fortuna, tra il Montana e il Wyoming. Un territorio aspro, popolato di indiani, tra cui spiccano gli aggressivi Apache. Nonostante l’immenso territorio, lo spazio sembra troppo piccolo per tutti e due. È l’inizio dell’epopea del Far West e della carneficina degli indiani e degli stessi coloni, vittime delle infallibili frecce di quelli che un tempo venivano chiamati Pellerossa.



Il sapore del western c’è. Horizon ci riporta, dopo un po’ di tempo, nelle spettacolari vallate del west americano, dove è nata l’America e il suo mito cinematografico.

Kevin Costner sembra avere davvero voglia di fare il cowboy, dopo il successo di “Yellowstone“, una serie tv vista su Sky che ci ha accompagnato nel Montana, a presidiare l’immenso ranch della dinastia Dutton e a difenderlo dalla globalizzazione. Un elogio della natura e del cowboy, l’eroe americano con pochi ma solidi valori. Una produzione da cui si è allontanato in polemica, sembra per divergenze d’opinioni.



In Horizon Costner, padre padrone di questo film di cui firma anche la regia, appare dopo un’ora dall’inizio del film, che dura 3 ore delle 12 previste. È un personaggio laconico, solitario, tenebroso. Vagamente fuorilegge ma fedele alla legge delle armi, che regna suprema nell’universo sperduto delle terre di frontiera. Cattivo coi cattivi e buono coi buoni. Tentato da una prostituta a cui salva la vita in una delle scene più emozionanti e classiche di questa prima parte.

Prima di lui si vedono indiani e cowboy, soldati nordisti ed esploratori, carovane e assalti, cavalli e accampamenti. E poi il fiume, fonte di vita e desiderio di città. Gli scalpi, segno di vittoria e dominanza. I canyon dipinti di rosso, della terra e dei morti sul campo di un infinito scontro di civiltà e sopravvivenza. Nonostante l’incontestabile curriculum revisionista (leggi in particolare Balla coi lupi), Costner non si dimena nell’attribuire patenti di vittime e carnefici. La violenza è di tutti, sovrana in un “non luogo” in cui si cerca o si difende la propria terra. Una violenza che non si nasconde, spietata e definitiva, che alimenta storie di vendetta ed escalation di rabbia, alternata a storie umane, amori, bisticci e gelosie.



Questo è, in poche parole, Horizon. Quello che Horizon non sembra essere, invece, è un vero e proprio film quanto piuttosto una serie tv al cinema. La storia si sviluppa con tempi contemplativi (pur senza cedere mai il passo alla noia, nonostante la durata). L’inizio della saga, in questo primo episodio, è solamente un’attesa. La lunga premessa di un divenire che ancora non conosciamo. Una buona partenza che non è sufficiente a farci amare i personaggi e che rivela, qua e là, qualche confusione narrativa dentro a storie che iniziano e non finiscono, mescolandosi malamente nella memoria dello spettatore che dovrà aspettare agosto per conoscere qualcosa in più dei protagonisti. Avrà la pazienza e l’interesse di aspettare tanto?

Il montaggio serrato del “prossimamente”, a chiusura del film, vuole aiutarci a credere che avremo modo di gioire e soffrire ancora a lungo.

Arrivederci a presto.

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