È il guru di quella new age dell’ospitalità che dal 2002, in pochi anni, ha indicato la possibilità di un vero salto di qualità per l’industria italiana del turismo. Ha creato un brand, Hotelphilosophy, che ben presto si è affermato nel panorama ricettivo italiano come modello di stile e innovazione. Ha collaborato con major quali Alpitour, Ventaglio, Veratour e ha letteralmente trasformato vecchi alberghi abbandonati in boutique hotel di stile (come Palazzo Barbarigo a Venezia, tra l’altro vincitore del contest televisivo “4 hotel”, o il Leon’s Place a Roma o il Metropole di Taormina), ha messo la sua cifra nel primo fashion hotel al mondo interamente curato nel concept e nell’interior design da una casa di moda (la Maison Moschino di Milano), ha riportato ad antichi splendori gioielli sparsi nei Caraibi (come The inn at english harbour, ad Antigua). Una galassia che al suo apice contava 14 strutture, tutte unite dal medesimo fascino e in grado di suscitare forti emozioni, anche grazie alla particolare attenzione per il dettaglio e la ricerca costante di una dimensione fortemente contemporanea, fuori dagli schemi, un gusto influenzato dai più moderni trend stilistici.
Lui è Stefano Ugolini, figlio d’arte (una famiglia di hôtellier nella natia Rimini), e ben presto imprenditore in una nuova realtà di hotel management basata sulle destinazioni della compagnia navale MobyLines, con resort in Sardegna, Corsica e Isola d’Elba. Attualmente il suo bouquet di gioielli del brand Hotelphilosophy è frammentato in proprietà diverse, dopo la crisi che tra il 2008 e il 2010 ha causato l’irrigidimento delle politiche di credito.
Oggi l’abbiamo rintracciato in quello che è il suo più recente esperimento di hotel project, ad Alassio, dove ha applicato la sua filosofia nel rilancio del Grand Hotel Diana, rilevato due anni fa e riqualificato nell’hardware (camere e spazi completamente ristrutturati) e nel software (ristorazione studiata con l’aiuto di uno chef stellato, beverage affidato a bartender che propongono carte dei gin e via dicendo).
Tutte attenzioni per aumentare soddisfazione e ricordi degli ospiti?
Direi di sì. I tempi sono cambiati: non basta più rispondere alle aspettative di chi viaggia, gli hotel devono offrire nuovo appeal verso nicchie emergenti, nuovi ospiti alla ricerca di nuove esperienze, di qualcosa di più individuale e personalizzato del classico hotel convenzionale. Hotel influenzati anche dalla moda, dal design e da uno stile di vita contemporaneo.
Si sente un pioniere su questa strada?
Mi sento soprattutto uno scout: ho sempre amato cercare vecchie strutture con potenzialità e riportarle a nuova vita. Non ho dubbi sulla forza inespressa dell’hôtellerie italiana, che può contare su vere eccellenze, tutto sta nel farle emergere e conoscere. Credo che bisogna essere sempre al passo con i tempi, capire le esigenze dei clienti, magari ancor prima che loro ne abbiano coscienza: bisogna curare l’accoglienza, in modo non invasivo ma premuroso, cogliere le tendenze e le mode.
Una filosofia applicabile nelle strutture sia business che leisure?
Direi che nelle città bisognerebbe offrire un comfort “di mare”, e viceversa. Credo che i grandi spazi per i meeting non abbiano più senso, così come le troppe sale riunioni. Il business oggi non deve e non può essere esagerato. E così pure “al mare” non si può pensare che la spiaggia vicina possa far sorvolare su troppe mancanze.
E infatti è stato coniato il termine “bleisure”, per indicare il mix…
Ma è un termine che indica soprattutto la possibilità di prolungare il soggiorno nella struttura anche dopo i giorni di lavoro. Io invece mi riferisco a tutto il format dell’ospitalità, nei dettagli, nell’accoglienza, nelle possibilità di scoprire le destinazioni. Il cliente deve essere educato a non restare chiuso all’interno del resort, ma di godere di quanto la location può offrire, accrescendo così esperienze e ricordi. Credo anche che le formule all inclusive, tanto lodate negli anni scorsi, siano oggi imbarazzanti e in realtà costituiscano un grosso limite per chi invece vorrebbe scoprire nuovi orizzonti anche nel food, che è diventato uno dei grandi motivatori del viaggio.
La pandemia sta cambiando un po’ tutto, ospitalità compresa. Secondo lei, in che direzione si sta andando?
Io ho sempre preso ispirazione dai viaggi, osservando quanto accade altrove, soprattutto all’estero, dove l’hôtellerie è sempre stata in evoluzione, al contrario di quanto succedeva in Italia. Adesso la pandemia ha bloccato nell’incertezza molti investimenti, ma è un momento che può diventare davvero opportunità di cambiamento. Certo, è il sistema-Paese che deve cambiare soprattutto, perché davvero la burocrazia deprime qualsiasi impresa. Ma la svolta è dietro l’angolo.
Quindi, le nuove frontiere per la nostra industria del turismo quali saranno?
Una su tutte: la scoperta delle potenzialità inespresse. La valorizzazione dell’arte, dei borghi: il turismo rappresenta un asset fondamentale per il nostro Paese, va pilotato nella sua trasformazione. Ci sono ancora molte contraddizioni, che una regione turisticamente fondamentale come la Sicilia riassume in toto: la rete obsoleta o inesistente dei trasporti, le tariffe assurde, la mancata estensione dell’alta velocità, l’inadeguatezza della rete elettrica e altro ancora. Difficile parlare di evoluzione dell’industria turistica se non si mette mano all’evoluzione dell’intero Paese.
(Alberto Beggiolini)