Il Gesù dei Vangeli è fortissimo nella sintesi: “Questo bambino ha proprio il dono della sintesi” potrebbe essersi sentita dire sua Madre, la Madonna, in un ipotetico colloquio coi professori. Come quella volta che, colto di sorpresa dallo scriba, impiegò meno di mezzo secondo a sintetizzare l’intero Decalogo, senza dare adito, a chi l’interrogava, di rinfacciargli di avere tralasciato qualche piccolo dettaglio. La domanda dello scriba era da esame di maturità: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?“. Del tipo: “Sintetizzi in due frasi l’intera storia del mondo”. E il Cristo, in quell’attimo, fece colpo sullo scriba: “Il primo è: Ascolta Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutta la tua forza“. Praticamente Cristo, in questo, ci nasconde le prime tre parole del Decalogo: quelle che riguardano Dio. Poi affina la sua risposta: “E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso“. Eccola la sintesi delle altre sette parole, che hanno a che fare con l’uomo. Con la ricamatura finale, per sciogliere ogni dubbio: “Non c’è altro comandamento più importante di questi“.
Non era facile, colti all’improvviso, far colpo al punto da togliere ogni reazione a quel saputello di scriba. Gesù, però, il dono della sintesi ce l’ha, eccome. In un’unica risposta è riuscito a far coabitare nella stessa casa Dio, il prossimo, se stessi. Nella cornice delle Dieci Parole. Il “+2” del titolo della trasmissione nasce da qui: i dieci comandamenti dell’Antico Testamento, più i due che li sintetizzano nel Nuovo Testamento: “Qui c’è dentro tutta la Legge e tutti i profeti” ribadì chi ascoltò quell’interrogazione a sorpresa.
Don Beppe Gobbo, un pretaccio, è il protagonista della sesta puntata de I 10+2 comandamenti dal titolo L’amore (in onda stasera, 23.05, RaiUno). La sua è la storia di un manovale di impresa diventato manovale di Dio. Ricordo la prima volta che lo vidi all’opera al mio paese: dentro il tombino delle fognature a svuotarlo prima di provare a riparare il guasto (per risparmiare qualche soldino). Ripuliva il tombino dagli escrementi: erano gli escrementi prodotti dai ragazzi che vivevano con lui in comunità. Gente difficile, storie complicate, vite ch’erano andate oltre la legge. Lo faceva, però, col sorriso di chi, senza parlare, ti diceva che in quel gesto scurrile e divino lui ci aveva scoperto il senso della felicità.
Nel bagliore di quel sorriso, contornato di fogna, Dio mi aveva dato l’appuntamento: nacque lì, in quello sguardo cristallino, il mio sogno di diventare sacerdote. Per provare a diventare felice come Bèpi. Che da oltre quarant’anni, nel mio paese di Calvene (Vicenza) organizza la speranza nelle terre disperate. In un paese fatto di contrade – un paese di mezza collina che si stiracchia verso le montagne – ha messo in piedi una contrada di case, di famiglie, di persone per render possibile l’aggancio con Dio: amando il prossimo ferito, lui giura che, senz’accorgersi, è riuscito a toccare con mano la pelle stessa di Dio. Nel sorriso di Beppe c’è la sintesi di tutto il Vangelo cristiano: “Ama Dio, ama il prossimo, ama te stesso”. A trovarne di gente così. Che la chiesa, quella istituzionale relega dannatamente alla vita di panchina. Che cosa importa loro: continueranno ad essere i primi a arrivare in campo all’allenamento, gli ultimi ad andarsene via dopo avere aiutato a pulire lo spogliatoio. I “panchinari di Dio”: gente immensa, umile, infangata.
Sono quarant’anni che don Beppe (ri)vede le solite storie affacciarsi sulla porta di casa sua: quando Monet dovette dipingere la cattedrale di Rouen con 50 dipinti, affittò una stanzina lì di fronte per dipinger le stesse pietre che, però, mutavano con l’orario e il clima. A riprova di come può essere meravigliosa la stessa cosa ogni giorno (per quarant’anni) se la guardi con amore. Come non si può essere artista senza soffermarsi decine di volte su un particolare, così Bèpi insegna che non si può amare senza riamare ciò che hai amato e che, magari, ti ha tradito. Anche solo deluso. O, più semplicemente, chiede più amore di altri.
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