La dimensione del tempo libero ha nell’universo dei videogiochi una delle principali aree di mercato e quindi di profitti crescenti. Ma essa ha anche, alle sue spalle e come scenario, una società moderna disincantata e, proprio per questo, sovranamente indifferente nei confronti di ciò che viene prodotto nel mondo dell’immaginario e negli universi che questo evoca e riproduce a fini commerciali.



Le mode culturali, sotto quest’aspetto, non indicano più nulla; la loro ricerca a 360 gradi ricicla tutto, senza complessi. C’era quindi da aspettarsi che dopo la raccolta di figurine su papa Francesco, i rosari venduti in edicola e i gioielli a sfondo religioso, l’universo della spiritualità – da diverso tempo riabilitato a esperienza possibile e, proprio per questo tollerabile – entrasse anche nel mondo dei videogiochi.



È infatti possibile vedere nella new entry del videogioco I am Jesus Christ un riconoscimento di visibilità e l’ennesima prova di una modernità disinibita, che non ha più bisogno di liquidare alcunché per affermarsi (come invece ha tentato a lungo di fare nella sua fase positivistico-scientista) e quindi è meravigliosamente tollerante nei confronti di una dimensione che fino a pochi decenni fa semplicemente irrideva.

Eppure un tale passaggio, per quanto prevedibile e per certi versi scontato, non è affatto senza conseguenze, ma trascina con sé un ridimensionamento fatale. Non siamo dinanzi al semplice processo di diffusione commerciale di una serie di immagini, né alla ricostruzione letteraria, teatrale o cinematografica della “buona novella”. Non è infatti possibile non rendersi conto di come, questa volta, si stia producendo non solo una riduzione dell’intero universo della narrazione religiosa a uno dei tanti mondi plausibili, ma il suo ingresso nell’universo dell’immaginario.



L’ammettere la figura di Gesù di Nazareth nell’universo dei videogiochi traduce infatti qualcosa di ben diverso, qualcosa di inaudito e intimamente scandaloso. Non si tratta affatto di laica tolleranza nei confronti della credenza e dell’esperienza religiosa, ma della regressione del suo protagonista principale (almeno per noi cristiani) al livello di un personaggio immaginario e, proprio per questo, ammissibile nel mondo del fantasy. Si può giocare, nel senso etimologico del to play, a essere, non un personaggio qualsiasi, come Batman, il galletto esploratore o Gandalf il bianco, ma il personaggio per eccellenza: quel Gesù di Nazareth “vestito di sabbia o di bianco” che ha smosso così tanto i cuori da cambiare la storia del mondo.

Il problema non consiste quindi nel fatto che la figura di Nostro Signore appaia in forma più o meno rispettosa della tradizione, accompagnata da un commento sonoro impeccabile e, per certi versi, anche emozionante, ma risiede nella provocazione a rivestirne i panni, in quel gioco del fare “come se”, che implica un’inaggirabile ridimensionamento della persona. Come se entrare nei panni di Gesù di Nazareth o dell’Uomo Ragno fossero due scelte entrambe plausibili.

Qui non siamo dinanzi a un problema di opportunità o di rispetto, ma alla riduzione di un uomo storico a un personaggio mitico, quindi alla sua sostanziale abolizione come elemento della realtà.

Nel mondo dei videogiochi non ci si è mai sognati di introdurre un personaggio storico. Non esiste il videogioco del fare “come se” si fosse Giuseppe Garibaldi, il generale Patton, o il comandante Che Guevara. I personaggi storici poco si prestano alla fantasia e, proprio per questo, si opera su miti o su esasperazioni mitologiche di personaggi storici – si pensi al noto Stronghold Crusader o al più recente Call of Duty – per comprendere come, di fatto, ci si possa inserire solo a condizione di rivestire i panni di protagonisti immaginari.

Far entrare il figlio del falegname della Galilea in un simile contesto vuol dire appiattirlo a un livello immaginario che non gli appartiene in quanto personaggio storico, vero Dio per i credenti e vero uomo per tutti.

Ma c’è un secondo livello di analisi che è ancora più importante. La riduzione della storia di Gesù di Nazareth a videogioco implica una grande spregiudicatezza; più che ovvia per un ambiente nel quale la redditività di un’operazione produttiva è l’unico criterio di scelta. Ma per tutti, credenti o meno, questa storia si presenta come la manifestazione di un Vero che ci interroga. Essa è inseparabile da qualcuno che annuncia. C’è sempre un testimone, visibile o interiore, che accompagna il racconto. Dinanzi alla capanna di Betlemme o sotto il Golgota – dove il testimone è la Chiesa stessa che ci riconduce dinanzi a questi due fatto – siamo tutti protagonisti di un evento radicale e inatteso, essenziale e disperante, che ha segnato il corso della storia. Rinviarlo nel mondo dell’immaginario per potercisi trastullare nel tempo libero è l’atto finale di una società che dietro la tolleranza nasconde in realtà la più serena indifferenza, mascherata per di più da una beffarda e inaccettabile pretesa di innocuità, come se si stesse facendo qualcosa di assolutamente banale. Ed è proprio questo il dramma: la banalizzazione dell’evento che ha cambiato la storia del mondo.