“Perché nessuno mi ha avvertito di quel che stava per succedere?”. Nel 2009, in piena crisi Lehman Brothers, Elisabetta II rivolse questa domanda al Congresso mondiale degli economisti in svolgimento a Londra interpretando la sorpresa generale per la crisi, inattesa, dei subprime. Stavolta, ahimè, è fin troppo facile indicare il principale responsabile per il crollo sincronizzato di quasi tutte le economie: il conflitto ucraino ha provocato le perdite più ingenti dalla fine della Seconda guerra mondiale facendo sfumare il corrispondente del doppio del Pil della Francia, ha sottolineato David Malpass, presidente della Banca Mondiale. E come trascurare l’effetto della pandemia, con il suo carico di sofferenze che ancora pesano sui Paesi più fragili?
Tutto chiaro? O forse no. Nel 2009 le banche centrali, Fed in testa, affrontarono la recessione inondando i mercati di liquidità. Stavolta, al contrario, aumentano i tassi con il risultato di rendere più difficile la ripresa. Colpa dell’inflazione, direte voi. Mettere in denaro in tasca alla gente in una situazione finanziaria precaria serve solo ad aumentare i problemi, come dimostra la suicida manovra di bilancio avviata dal governo di Liz Truss, l’ultimo benedetto dalla Sovrana. Ma la Regina Elisabetta non si sarebbe accontentata di questa risposta. Non più tardi di un anno fa mi avevate detto che non c’era ragione per preoccuparsi dell’inflazione, un fenomeno temporaneo che sarebbe stato superato nel giro di mesi. Al contrario, nel 2022 la musica è cambiata. Quasi all’improvviso la Fed e la Bce hanno scoperto che l’ascesa dei prezzi, lungi dal rientrare nei binari, si stava rivelando incontrollabile. Di qui un intervento violento, tanto da mandare in crisi non solo le Borse, ma anche i rendimenti delle obbligazioni custodite nei fondi pensione. E, soprattutto, tanto da spingere il mondo verso la recessione.
Davvero non si poteva fare altrimenti? Non era il caso di intervenire prima? E non si rischia oggi di aggravare la situazione con provvedimenti che, lungi dal portare sollievo all’economia, rischiano di aggravare la crisi?
La sensazione è che stavolta le banche centrali, almeno quella Usa, abbiano sbagliato qualcosa. Nel 2021 (e ancora nei primi mesi del 2022) la Fed ha scelto di accompagnare una politica fiscale ultraespansiva, prima di Trump poi di Biden, con una politica monetaria altrettanto espansiva fatta di tassi reali sempre più negativi e di Quantitative easing. Poi, con scarso preavviso, ha scatenato la corsa dei tassi e il taglio del bilancio della banca centrale, negando l’ossigeno a Wall Street ma anche all’economia reale.
La Bce, dopo le resistenze iniziali, si è adeguata per necessità al nuovo corso. Non solo i tassi sono destinati a salire, ma presto anche l’Eurotower si sottoporrà al Quantitative tightening, ovvero il taglio del bilancio. Le risorse per finanziare i deficit di bilancio saranno più scarse, già oggi Francoforte fa sapere che l’aumento dei tassi nelle aste del Tesoro non innescherà il ricorso al Tpi, il piano salvagente studiato per i Paesi più fragili. In questo quadro si inserisce un ripensamento della politica fiscale: il clima del Recovery Fund appartiene al passato, è illusorio attendersi un salto di qualità nella collaborazione tra i vari Paesi.
È una constatazione amara, specie alla vigilia dell’ingresso sulla scena europea del nuovo Governo. Ma non stupisce che la Germania, alle prese con il rischio di dover chiudere le proprie industrie, auto e chimica in testa, abbia deciso di anteporre, facendo ricorso alle risorse di cui dispone, le esigenze delle proprie imprese alla strategia del price cap. Può non piacere, ma è così. Non sembrano esserci, purtroppo, i presupposti per un “momento Hamilton” per l’Europa per rifarsi al precedente storico Usa; fu Hamilton, allora segretario al Tesoro, a convincere le 13 ex colonie americane a mettere in comune i debiti accumulati nella guerra contro l’Inghilterra dando vita al bilancio comune e alla prima banca federale americana, la chiave del successo degli Stati Uniti, Una figura così popolare da essere dal 2015 protagonista di un musical di grande successo a Broadway. Come non avverrà, al momento, per Mario Draghi. O tantomeno per Giorgia Meloni: la luna di miele sembra finita ancor prima di cominciare. Ma la futura Premier farà bene a non allontanarsi dalle strategie dell’ex banchiere: il passaggio europeo è stretto, ma è anche l’unico di cui disponiamo.
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