Quest’anno il mese di aprile non sarà più contraddistinto dall’attesa per l’approvazione del Documento di economia e finanza (Def), contenente le previsioni del Governo sull’andamento dei principali aggregati macroeconomici del Paese da trasmettere alla Commissione europea per un giudizio, soprattutto in merito all’andamento dei principali di finanza pubblica. Su questo cambiamento, derivante dalla riforma del Patto di stabilità e crescita, abbiamo chiesto un commento a Massimo D’Antoni, Professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena.
Fino all’anno scorso il Def rappresentava un documento importante per capire se le previsioni del Governo sulla crescita e sui parametri di bilancio si stessero verificando o meno. Un documento che consentiva di capire se l’Ue ci avrebbe “bacchettato” o meno rispetto agli impegni presi. Da quest’anno non si potranno fare più queste considerazioni, con ricadute anche politiche, rispetto ai rapporti tra Roma e Bruxelles?
Nel precedente assetto di regole, prima della recente riforma del Patto di stabilità Ue, il Def rappresentava il documento su cui si imperniava il cosiddetto semestre europeo, ovvero la fase di coordinamento delle politiche di bilancio dei Paesi dell’Unione. Il suo valore non era solo informativo, era il momento centrale della programmazione di bilancio e più in generale delle politiche economiche. E ancora, era sulla base del Def che la Commissione formulava le proprie valutazioni e raccomandazioni, rese pubbliche ogni anno tra giugno e luglio.
Con la riforma dello scorso anno molte cose sono cambiate ed è vero che il Def ha perso centralità, perché ora il passaggio centrale è rappresentato dal Piano fiscale strutturale di bilancio di medio termine, o più brevemente Piano strutturale di bilancio. A differenza del Def, che veniva presentato entro il 30 aprile di ogni anno e presentava il programma per il successivo triennio, il nuovo Piano strutturale di bilancio viene preparato una sola volta nell’arco della legislatura e vincola le scelte di bilancio su un orizzonte di cinque anni.
Dunque, si allunga l’orizzonte di programmazione…
Non solo si allunga, ma si fa anche più rigido. È vero, infatti, che il Def presentava gli obiettivi per i tre anni successivi, ma di fatto ogni anno tale programma veniva rivisto e aggiustato. Ora invece, il profilo della spesa pubblica primaria netta nei successivi cinque anni è definito una volta per tutte, fino al varo del successivo piano.
Ci può spiegare cos’è la spesa primaria netta e il legame che dovrà avere il suo andamento rispetto a quello del Pil?
La spesa primaria netta è il parametro fondamentale su cui si basa il nuovo impianto di governance europea. Laddove prima gli impegni e le eventuali procedure di infrazione venivano basati su una pluralità di indicatori, tra cui il saldo strutturale di bilancio, l’andamento del debito pubblico, ora accanto al sempre valido limite del deficit al 3% conterà solo il vincolo rappresentato dalla crescita della spesa primaria netta, un parametro che già esisteva, ma con un ruolo secondario.
In pratica, con il Piano strutturale di bilancio si fissa l’aumento massimo annuo della spesa della Pubblica amministrazione, calcolata al netto di alcune voci che non sono sotto il diretto controllo dei Governi (come ad esempio la spesa per interessi sul debito pubblico), che risentono del ciclo economico (come la spesa per sussidi di disoccupazione) o che si ritiene che non debbano essere soggetti a vincolo (come gli investimenti finanziati con fondi europei).
Tale aumento non può eccedere la crescita annua del Pil potenziale e, anzi, per i Paesi che come il nostro hanno un debito elevato, deve essere significativamente inferiore alla crescita del Pil.
Ci faccia capire, Professore, significa che un Paese che volesse aumentare la propria spesa pubblica rispetto al Pil non potrebbe più farlo?
No, non si arriva a questo. Aumenti della spesa netta sono ammessi anche oltre il limite annuo fissato se vengono al contempo aumentate le cosiddette entrate discrezionali, ovvero se vengono introdotte nuove imposte o deliberatamente aumentate le imposte esistenti. Ciò che non è possibile è aumentare la spesa senza un’adeguata copertura sul lato delle entrate.
Così descritto, il vincolo non sembra poi molto diverso da quello precedente che faceva riferimento al saldo strutturale di bilancio.
La differenza è che, contrariamente al saldo di bilancio, la spesa primaria netta non risente degli effetti del ciclo economico. Vale a dire che in presenza di una recessione, quando si riducono le entrate fiscali, non nasce alcun obbligo a ridurre la spesa pubblica, che quindi può mantenere la sua funzione di stabilizzazione e contrasto al ciclo. Con le regole precedenti si era cercato di ottenere questo risultato facendo riferimento al saldo cosiddetto “strutturale”, calcolato stimando le entrate teoriche in condizioni di piena occupazione, ma senza grande successo. È una delle ragioni per le quali le regole sono state riformate.
Che ne è dunque del Def e di tutte le informazioni che esso forniva sull’andamento delle principali voci del bilancio pubblico (come il costo degli interessi, l’andamento delle entrate, ecc.)?
La scadenza del 30 aprile resta, ma essa ha un ruolo cruciale solo nell’anno in cui ciascun Paese deve presentare il Piano strutturale di bilancio, cosa che a regime avverrà a inizio di legislatura o in presenza di un cambio di Governo. Negli altri anni, tra il varo di un piano e quello successivo, resterà come momento di verifica del rispetto degli impegni presi, sia in termini di bilancio che di attuazione delle riforme.
Non dimentichiamo, infatti, che il nostro Paese si è avvalso della possibilità di chiedere un aggiustamento di bilancio più “morbido” e questo è possibile solo precisando, oltre agli obiettivi di spesa, un dettagliato programma di riforme e investimenti. Ancora non sappiamo come si chiamerà il documento che dovrà essere presentato di cui a meno di tre mesi, ma senz’altro dovrà contenere informazioni dettagliate sul rispetto degli impegni presi con il Piano strutturale varato lo scorso settembre.
Pensa che sia stata sottovalutata l’importanza del Piano strutturale di bilancio approvato lo scorso anno?
Ho l’impressione che sia per lo più sfuggita l’importanza attribuita a tale documento con la nuova governance. Il Piano definisce un vincolo reale per l’azione successiva del Governo nella legislatura, almeno sotto il profilo delle risorse di bilancio. Si tratta di una modifica importante nel modo di affrontare le scelte di bilancio, con cui Governo e Parlamento dovranno rapidamente fare i conti. Non sembra più praticabile l’approccio per cui intanto si trova il modo di far quadrare i numeri e l’anno prossimo, alla luce dell’evoluzione dell’economia, si vedrà come aggiustare il tiro.
Le “Raccomandazioni” della Commissione europea avranno la stessa importanza che avevano fino all’anno scorso?
Le raccomandazioni sono state già incorporate nelle scelte del Piano strutturale di bilancio presentato lo scorso autunno. Anche su questo vale quanto abbiamo già detto: l’orizzonte di riferimento diventa pluriennale, quindi l’appuntamento annuale avrà presumibilmente un valore più di verifica dell’attuazione degli impegni.
Sembra che il nuovo impianto sia migliore del precedente. È così? Ha comunque qualche difetto che val la pena evidenziare?
Le nuove regole affrontano alcuni dei limiti delle precedenti. È meno probabile che la loro applicazione possa portare a effetti prociclici, come avvenuto in passato. Sono più trasparenti e meno complesse, e quindi anche meno soggette alla discrezionalità politica.
È un vantaggio? Indubbiamente, anche se della discrezionalità politica il nostro Paese ha spesso beneficiato. È plausibile che rispetto alle regole precedenti possa ridursi il disincentivo agli investimenti. Anche quanto abbiamo detto sulla necessità di attuare una vera programmazione pluriennale è indubbiamente un aspetto positivo.
Detto questo, contrariamente alle speranze più o meno espresse di molti, le nuove regole non sono affatto più permissive delle precedenti. La spesa pubblica nel prossimo quinquennio dovrà ridursi significativamente in termini reali e questo non solo nel nostro Paese. Insomma, la filosofia di fondo non è cambiata, l’Europa non si allontana dal proprio approccio neo-mercantilista, improntato al contenimento della domanda interna. In un momento in cui si profila la minaccia di guerre commerciali e il modello basato sul traino dell’export è arrivato al capolinea, servirebbe ben altro.
(Lorenzo Torrisi)
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