Il dibattito di politica economica ruota già attorno alla nuova legge di bilancio, la “manovra” per il 2025. Ma per quanto sia rilevante guardare al prossimo anno, occorre gettare lo sguardo un po’ più avanti, perché c’è una manovra ancor più importante e difficile, una manovra doppia che serve a uscire dalla procedura d’infrazione e a rispettare le nuove regole del Patto di stabilità. Tutto si tiene, perché la Legge di bilancio a sua volta andrà preparata tenendo conto della procedura e delle nuove regole, ma questa volta non basta più presentare a Bruxelles la lista della spesa, occorre inserirla in un piano a lungo termine.
Giancarlo Giorgetti al Meeting di Rimini se l’è presa con il Pnrr paragonandolo al Gosplan, però il ministro dell’Economia fin dalle prossime settimane dovrà mettere mano a un piano, richiesto dall’Unione europea, che forse è ancor più complicato di quelli dell’Unione delle repubbliche sovietiche. Infatti, non deve contenere solo le proiezioni sulle spese, le entrate, il disavanzo, il Pil e l’inflazione, ma vere e proprie riforme e investimenti per garantire la sostenibilità del debito pubblico.
Da Bruxelles non sono ancora arrivate indicazioni precise, solo messaggi indiretti. Il negoziato vero e proprio comincerà in modo informale il prossimo mese. È scontato che il Governo chiederà non quattro, ma sette anni per aggiustare i conti, sfruttando al massimo i tempi consentiti dal Patto di stabilità. Per far questo la conditio sine qua non è presentare il piano.
Riassumiamo rapidamente il quadro della situazione. Per il periodo in cui un Paese resta sotto procedura d’infrazione, ossia finché il suo deficit eccede il 3% del Pil, le regole europee richiedono di ridurre il disavanzo strutturale (ossia il deficit aggiustato per gli effetti del ciclo economico) di almeno lo 0,5% del Pil all’anno. Tuttavia, non è tenuto a ridurre il rapporto debito pubblico/Pil. Una volta usciti dalla procedura il percorso di aggiustamento continua per chi come l’Italia ha un rapporto debito/Pil superiore al 60%, secondo le regole del cosiddetto “braccio preventivo”, ossia quello volto ad assicurare che il deficit non ecceda il 3% del Pil in caso di un peggioramento ciclico dell’economia. Ciò comporta di ridurre il disavanzo strutturale all’1,5% del Pil, così da consentire un aumento del deficit per effetto degli stabilizzatori automatici in caso di rallentamento ciclico dell’economia.
Se si chiedono sette anni di tempo, allora bisogna realizzare riforme e investimenti ritenuti rilevanti. Secondo il regolamento europeo sono considerati rilevanti quelli che “migliorano la resilienza e il potenziale di crescita, aiutano la sostenibilità dei conti pubblici e sono in linea con le priorità della Ue, quali transizione equa, verde e digitale, sicurezza energetica, resilienza sociale ed economica e difesa”.
Per quel che riguarda i conti pubblici in un arco di medio periodo è evidente che le pensioni sono il cruccio numero uno. Non solo non si può tornare indietro rispetto alla Legge Fornero, ma occorre prevedere cosa fare per impedire che scoppi la “bomba demografica”. Vista la tendenza italiana, il pericolo diventa massimo proprio a partire dal prossimo decennio, cioè quando scadono i sette anni di tempo per aggiustare i conti.
Altra riforma bollente riguarda il fisco. Se nel prossimo bilancio non verranno rinnovati i tagli dei contributi sociali e dell’Irpef, oltre alle altre misure definite temporanee senza aver messo in limite di tempo, si potrebbero risparmiare dai 17 ai 20 miliardi di euro, rendendo più facile il cammino verso il riequilibrio dei conti. Così non sarà, il Governo lo ha già detto. Il Tesoro sta faticosamente raschiando il fondo del barile, ma per mantenere gli impegni occorre trovare le risorse. Non solo. Lega e Forza Italia vorrebbero ampliare la flat tax al 15% per i lavoratori autonomi, salendo dagli 85 attuali a 100mila euro di reddito annuo. Fratelli d’Italia, invece, pensa di intervenire di nuovo sull’Irpef dei lavoratori dipendenti per favorire i redditi da 50 mila euro l’anno in su. Si calcola che ci vogliono 4 miliardi oltre ai 4 previsti per confermare gli sgravi già approvati.
In sostanza, comincia in salita il negoziato per l’anno prossimo, ancor più quello per gli anni successivi. Non solo. Emerge una preoccupazione di fondo rispetto alla tenuta degli investimenti pubblici. Fino al 2026 c’è il Pnrr che va realizzato nel modo migliore e nei tempi previsti per non dover addirittura restituire parte dei prestiti europei. Ma dopo? Cosa c’è tra il 2027 e il 2032? Allo stato attuale non è previsto nulla, il serio rischio è che, come sempre accaduto in passato, l’incapacità di ridurre la spesa in conto corrente porterà a tagliare quella in conto capitale. Ciò violerebbe uno dei pilastri sui quali si regge la sostenibilità del debito pubblico italiano. Ecco perché ci vuole un piano non a breve, ma a medio-lungo termine, e ci vuole subito, fin dal bilancio del prossimo anno.
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