Il Fondo monetario internazionale ha compiuto una missione periodica in Italia al termine della quale ha rilasciato una relazione conclusiva che descrive i risultati preliminari della visita. Pur riflettendo solo le opinioni della delegazione del Fmi che ha visitato l’Italia e non necessariamente anche quelle del Comitato esecutivo il quale approverà successivamente una relazione finale, esse sono di elevato interesse dal punto di vista dei decisori italiani di politica economica.



Il Fmi evidenzia come l’economia italiana si sia ripresa bene dagli effetti economici della pandemia e dallo shock dei prezzi energetici, grazie in particolare alla ripresa del turismo e al sostegno fornito dalle politiche pubbliche, ma come la crescita resti moderata nonostante il Pil abbia ora superato il livello pre-Covid del 4,5%, un risultato migliore rispetto a quello di altri grandi Paesi dell’area euro (la Germania in particolare). Tuttavia, la politica fiscale molto espansiva ha prodotto elevati livelli di deficit e debito pubblico in rapporto al Pil, aumentando il premio di rischio dell’Italia (livello dei tassi e dello spread sui titoli pubblici) e agendo come freno agli investimenti del settore privato.



La consistente spesa per le ristrutturazioni domestiche, finanziata con generosi crediti d’imposta, e l’incremento nell’utilizzo delle ingenti risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza hanno contribuito alla robusta performance economica. Tuttavia, lo stimolo alla crescita derivante dai crediti d’imposta sull’edilizia abitativa è stato piuttosto limitato rispetto all’entità delle risorse fiscali spese. Sul fronte dei prezzi è in corso una disinflazione rapida e ordinata, spinta dal calo dei prezzi dell’energia (anche in questo caso, aggiungiamo noi, molto migliore rispetto agli altri grandi Paesi dell’Unione), mentre su quello delle relazioni economiche internazionali le partite correnti sono ritornate in surplus dopo un deficit elevato ma temporaneo nel periodo dello shock energetico.



Il Fmi prevede che l’inflazione globale scenda all’1,7% medio nel 2024 (ma in questi primi mesi siamo al di sotto dell’1%) e ritorni al target del 2% nel 2025. I salari dovrebbero accrescersi in corso d’anno e in quello prossimo (sarà la volta buona?), tuttavia finanziati dai maggiori profitti delle imprese “mantenendo così l’inflazione core su un percorso di moderazione”. Ma gli imprenditori, ci chiediamo noi, saranno d’accordo? L’inasprimento dei tassi d’interesse non ha sinora generato effetti problematici sul settore creditizio e il sistema bancario rimane solido, ma i tassi di interesse elevati potrebbero indebolire la capacità di pagamento dei debitori. Il Fmi evidenzia, inoltre, la necessità di accrescere la produttività dell’economia italiana, un obiettivo ovvio e tutt’altro che nuovo, dato che persiste incompiuto da almeno due decenni.

Sin qui l’analisi del Fmi è ampiamente condivisibile, tuttavia nel suo prosieguo fornisce indicazioni contraddittorie. Da un lato elogia infatti il ruolo del Pnrr, sostenendo che: “L’attuazione completa e tempestiva del Piano nazionale di ripresa e resilienza, seguita da un successivo piano fiscale strutturale a medio termine incentrato su infrastrutture pubbliche critiche, ricerca e innovazione, riforma del sistema educativo e miglioramento del clima imprenditoriale” sosterrebbe gli obiettivi di crescita. “Si prevede che il Pil aumenterà dello 0,7% nel 2024 e nel 2025 poiché l’accelerazione della spesa relativa al Pnrr – da concludere entro la metà del 2026 – compenserà in gran parte la graduale eliminazione degli investimenti residenziali potenziati dal Superbonus”.

Sul versante opposto, tuttavia, lo stesso rapporto indica la necessità di “conseguire un aggiustamento fiscale più rapido del previsto per ridurre il debito” e per “ripristinare spazi di bilancio in caso di gravi shock”. Sinché esso avviene “ritirando misure di crisi inefficienti e temporanee” si può anche essere d’accordo e può anche essere che l’effetto prodotto in termini di minore crescita sia limitato. Tuttavia, alcune affermazioni preoccupano: “Sarà necessario un avanzo primario molto più elevato, vicino al 3% del Pil, per garantire un rapporto debito/Pil in graduale diminuzione. L’anticipazione dell’aggiustamento per avvicinarsi a tale obiettivo entro il 2025-26 può essere realizzata con un costo modesto per la crescita attraverso una più rapida eliminazione di misure inefficienti o temporanee, tra cui la cessazione dei sussidi per la ristrutturazione degli alloggi e delle misure per compensare l’elevata inflazione”, con effetti compensativi derivanti da un simultaneo aumento di spesa e dalle connesse riforme in ambito Pnrr. Ma chi ci garantisce che gli investimenti pubblici diretti del Pnrr non siano meno inefficaci degli investimenti privati attivati dal Superbonus? Inoltre, l’idea di un avanzo primario attorno al 3% appare consistentemente restrittiva, a maggior ragione se essa non rivede la parte di spesa pubblica legata al Pnrr.

Non era forse meglio rinunciare a una quota dei programmi del Pnrr, dato che l’obiettivo del recupero del livello del Pil pre-Covid è stato conseguito ancor prima di spendere un solo euro del Piano? Non era forse meglio migliorare il disavanzo complessivo anziché perseguire un avanzo primario monstre per poi utilizzarne una quota per finanziare investimenti pubblici Pnrr, anch’essi di non certa efficacia e inoltre non più giustificati dalle ragioni dell’epoca Covid?

In sintesi, la relazione del Fmi appare molto double face, Dottor Jekyll dal lato degli investimenti pubblici ma Mister Hyde dal lato della spesa pubblica primaria e persino tendenzialmente Dracula dal lato delle entrate fiscali, richieste per coprire tutta la seconda e una quota non trascurabile dei primi.

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