“È brutale, ma è la verità; una carneficina come quella cui stiamo assistendo, agli occhi dei mercati conta di meno di una statistica sul lavoro Usa o di un aggettivo usato da un banchiere centrale”. A farsi interprete del cinismo delle piazze finanziarie è stato lo stesso Wall Street Journal, giornale di riferimento della comunità della Borsa Usa, ma anche tra i più attenti e autorevoli centri d’osservazione della politica internazionale. Ma quando rabbia e violenza s’abbattono su quella che è difficile considerare “civiltà”, il preteso “cinismo” diventa l’arma della ragione da opporre all’hubris che si nutre di razzismo e di odio.



È con questo spirito che è legittimo chiedersi se il dramma di Gaza provocherà o meno una nuova crisi economica, precipitando il mondo verso la recessione come accadde cinquant’anni fa con la guerra dello Yom Kippur o qualche anno dopo con la crisi degli ostaggi americani in Iran.

Quello che preoccupa i mercati stavolta è che Israele attacchi le centrali nucleari iraniane e che l’Iran risponda bloccando le petroliere che passano attraverso lo stretto di Hormuz e spingendo l’esercito di Hezbollah, forte di un arsenale di tutto rispetto, a invadere la Galilea. In realtà, finora i contendenti fanno mostra di cautela: L’Iran è stato infatti finora molto attento a non lasciare in giro pistole fumanti.



La Repubblica degli Ayatollah non nega l’evidenza, cioè il sostegno logistico e finanziario ad Hamas (forte del resto di una rete di finanziamenti via criptovalute dalle dimensioni insospettabili), ma fa filtrare l’idea di una fuga in avanti che ha colto di sorpresa anche Teheran.

L’Amministrazione Biden, dal canto suo, procede con grande cautela. Washington ha congelato i fondi per l’Iran già dissequestrati dopo la liberazione di alcuni cittadini Usa, ma mostra grande cautela nelle accuse alla nomenklatura dei guardiani della rivoluzione. Joe Biden, in svantaggio nei sondaggi per il rinnovo del mandato alla Casa Bianca ha bisogno di tutto fuorché di un forte aumento del prezzo del petrolio. Per questo cercherà di convincere Israele a non allargare senza necessità il conflitto. Anche le sanzioni contro il petrolio iraniano saranno verosimilmente di basso profilo con il risultato di ridurre al minimo l’impatto sui prezzi dell’energia e, di riflesso, sull’inflazione e la crescita.



Questo è senz’altro lo scenario più ottimistico. Ma nei vari pensatoi dell’economia globale si valutano altre ipotesi, assai più pericolose. In sintesi, le ipotesi sono tre:

1) Il conflitto, pur cruento, resta confinato alla Striscia di Gaza. In questo caso, argomentano gli esperti interpellati da Bloomberg, gli effetti saranno limitati. Facile prevedere la ripresa dell’embargo nei confronti di Teheran, che attualmente rifornisce il mercato di 700 mila barili di petrolio al giorno. L’impatto sui prezzi dovrebbe aggirarsi sui 3 dollari al barile, ma Arabia Saudita ed Emirati Arabi potrebbero colmare la differenza senza troppi problemi.

2) Le cose sono destinate a complicarsi nel caso il conflitto si allarghi agli Hezbollah con la conseguenza di coinvolgere Libano e Siria. In quel caso, a giudicare dal precedente del conflitto del 2006, il prezzo del petrolio salirà di un buon 10% arrivando a sfiorare quota 100 dollari. Ma le conseguenze potrebbero essere ben più gravi se la crisi si allargasse ad altri Paesi dell’area, in particolare quelli che, dall’Egitto alla Tunisia, furono teatro della Primavera araba. In quel caso le conseguenze economiche del confronto sarebbero ben più gravi: almeno 300 miliardi di dollari di Pil in meno, con il risultato di far precipitare la crescita globale sotto il 2%, uno dei dati peggiori del secolo.

3) Il terzo scenario, il più improbabile, prevede il conflitto diretto tra Israele e l’Iran che, come prima conseguenza, farebbe schizzare il petrolio oltre i 150 dollari. Ma questa, avvertono gli esperti di Bloomberg, sarebbe solo la prima e non più grave conseguenza di un conflitto che potrebbe contemplare l’uso delle armi atomiche e comunque coinvolgere tutti i grandi player globali.

Facciamo gli scongiuri non senza aver rilevato che la geopolitica ha ormai preso il controllo degli eventi a livello internazionale, e che anche l’economia è entrata in una stagione del tutto diversa da quella dei decenni passati, quelli dei commerci aperti, dell’inflazione e dei tassi d’interesse bassi, della globalizzazione della finanza e delle informazioni, della collaborazione scientifica e tecnologica.

Tra le conseguenze figura anche la frammentazione delle catene di fornitura globali, grazie alle quali le imprese si sono rifornite ovunque trovassero materie e componenti adeguati a buon prezzo, Dalla globalizzazione dei commerci si rischia di passare alla globalizzazione delle guerre con effetti devastanti sul costo del denaro, sempre più caro e raro per le missioni dedicate allo sviluppo.

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