Egitto e canale di Suez. Sono questi i due snodi cruciali del Medio Oriente cui deve guardare con particolare attenzione l’economia italiana. La risposta dell’Iran e dei suoi proxy all’uccisione di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, e ancora prima del numero due di Hezbollah, potrebbe cambiare volto alla guerra e rendere la regione ancora più instabile di quanto sia ora. L’ideale, spiega Mario Deaglio, professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino, sarebbe un attacco limitato, che non presti il fianco all’ampliamento del conflitto. Perché in quel caso l’Italia deve guardarsi da una recrudescenza degli attacchi Houthi nel Mar Rosso: il rallentamento delle attività o addirittura il blocco del canale di Suez obbligherebbe le merci, soprattutto cinesi, a circumnavigare l’Africa con conseguenze dirette sull’inflazione. Ma ci sono da considerare anche le estrazioni sottomarine assegnate all’Eni davanti alla foce del Nilo, in un giacimento di gas particolarmente redditizio: se tutta l’area si infiammasse potrebbero risentirne. Finora le previsioni del FMI per i Paesi MENA (Medio Oriente-Nord Africa) parlano solo di uno 0,5% di crescita in meno. Ma il coinvolgimento dell’Iran nella guerra cambierebbe lo scenario. Con conseguenze per tutti. I Paesi dell’area le stanno già pagando: solo a fine 2023 per Giordania, Libano ed Egitto erano stati calcolati 9,3 miliardi di euro di mancati introiti.
Dopo l’uccisione del capo di Hamas, c’è stato un aumento del prezzo del petrolio. Questa guerra, che rischia di protrarsi a lungo, può provocare una crisi energetica e far alzare ancora l’inflazione?
Sì. Leggermente può incidere. Se guardiamo le correnti mondiali del prezzo del petrolio quello che si annuncia non sarà un grande aumento, non mi fascerei la testa solo per questo. Il problema del consumo del petrolio è da vedere in controluce rispetto alle diversificazioni energetiche che si stanno operando: investimenti nell’energia nucleare, eolica e solare. Nei prossimi due mesi potrebbe esserci qualche problema, ma molti Paesi hanno le riserve piene, non cederei, quindi, alla tentazione di annunciare disastri appena scatta un piccolo aumento del prezzo del petrolio. Starei a vedere. È una situazione che si è verificata d’estate, quando la domanda di petrolio è relativamente scarsa. Inoltre, il gas è un’alternativa sempre più di moda. E gli stessi cinesi sono entrati in un’ottica di energia solare.
Il conflitto mediorientale sembra orientato ad allargarsi su altri fronti, poi c’è l’Ucraina e venti di guerra spirano anche intorno a Taiwan. Quella mondiale sta diventando un’economia di guerra?
Negli ultimi anni siamo già entrati in un’economia di pre-guerra. Gli europei sono gli unici che non se ne sono accorti o hanno fatto finta di non accorgersi. Di fatto le spese per armamenti sono aumentate, le strategie stanno cambiando. Non è detto poi che si vada verso una guerra: ci sono troppi fattori per poter giudicare. L’accordo russo-americano per lo scambio di prigionieri che è appena stato realizzato è un classico sistema per ridurre la tensione.
Per l’Europa e per gli italiani la guerra a Gaza quanto conta?
Conseguenze dirette per noi non ne vedo molte, indirette ce ne possono essere. I Paesi dell’area più vicini a noi sono Libano ed Egitto. Se in Libano non si verificano degli scostamenti gravi e l’Egitto continua nella sua politica di estrema pacificazione allora non dobbiamo preoccuparci più di tanto: finora sono sempre stati gli egiziani a cercare di ricucire le trattative per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi invitando le parti a riprendere il negoziato. Se invece vedessimo dei segnali di cambiamento in questi due Paesi allora mi preoccuperei.
Perché sono così importanti per noi?
In Libano abbiamo dei soldati, truppe ONU che separano israeliani e libanesi. Una presenza nell’area, con questo ruolo, che va indietro nei decenni. La prima presenza in Libano dell’ONU vide una spedizione internazionale con americani e italiani. Gli USA arrivarono con i marines che morirono in un attentato. Gli italiani aprirono una postazione medica con farmaci gratuiti per tutti. Morale: dopo un mese il comandante italiano sapeva tutto e parlava con tutti. Noi sanammo la situazione. Per questo la nostra presenza è importante. Ci interessa che il Libano non diventi un campo di battaglia.
Con l’Egitto invece abbiamo interessi economici precisi.
Per quanto riguarda l’Egitto, davanti alle foci del Nilo, non ancora totalmente esplorato, c’è un giacimento di gas diretto e amministrato dall’Eni, i migliori al mondo per operazioni di estrazioni sottomarine. Si tratta probabilmente di un unico giacimento che va dall’Egitto alla Siria e noi siamo lì. Siamo sempre stati bravi a non volere la maggioranza delle società che controllano queste attività, l’abbiamo lasciata ai locali, noi siamo i tecnici.
Il Medio Oriente come area ha subito forti danni economici per la guerra, se non altro dal punto di vista turistico?
La componente turistica, che non era piccola, al momento vale zero. La Giordania aveva un flusso importante. E questa considerazione vale per i turismi più avventurosi che ci sono verso le località del Golfo. Gli Emirati si difendono mettendoci un sacco di soldi: investono molto in strutture sanitarie e tecnologiche di vario tipo, così come nello sport, nel calcio. I soldi per fare gli investimenti li hanno. Certo, se entrasse in guerra l’Iran, anche la zona del Golfo Persico sarebbe da guardare con attenzione.
Oltre al turismo anche altri settori risentono della guerra?
Noi siamo presenti con attività che vanno dal turismo alle costruzioni in genere. L’Arabia Saudita, per esempio, sta costruendo diverse città.
Bisogna valutare, insomma, come peserà una eventuale entrata dell’Iran nel conflitto?
Sì. A quanto sappiamo non ha la bomba atomica, la vera escalation sarebbe questa. È sulla strada di realizzarla ed è stato interrotto diverse volte da attentati di origine israeliana. Che gli ayatollah sciiti si facciano tirare in una guerra che coinvolge soprattutto i sunniti ho ancora i miei dubbi. Se poi è vero che il capo di Hamas è stato ucciso da una bomba che era lì da diversi mesi, e quindi non è un atto pensato sul momento, allora la situazione è un po’ meno pericolosa. Anche se una qualche risposta militare gli iraniani dovranno darla.
Lo snodo più importante della guerra mediorientale per l’Europa e l’Italia è quello del Mar Rosso. Il persistere della crisi con gli Houthi può avere ripercussioni dirette sui nostri affari?
Quello sì. Gli Houthi sono amici dell’Iran da cui ricevono armi e munizioni. Noi occidentali siamo presenti e conosciamo i loro arsenali. Se dovesse essere chiuso il canale di Suez, un effetto ce lo avrebbero soprattutto i nostri rapporti con la Cina: le merci dovrebbero fare tutto il giro dell’Africa e questo aumenterebbe i costi in modo molto considerevole. Se si interrompesse quella rotta marittima, allora l’effetto sull’inflazione sarebbe molto forte. Per questo abbiamo interesse che dall’Iran ci sia una risposta contenuta, del tipo che venga colpita una nave israeliana, o che trasporti merci verso Israele, e tutto si fermi lì. Brutto parlare in questi termini, ma sarebbe la risposta meno rischiosa.
Possiamo dire che l’Europa non deve guardare troppo dall’esterno questo conflitto?
Assolutamente, dobbiamo tenere un occhio molto attento, ma non è che dobbiamo essere pronti a indossare l’elmetto. L’Europa si trova in una fase di transizione tra un parlamento e l’altro e in agosto resterà chiuso. In questo mese, a meno di una convocazione di urgenza, non si fa niente. Si comincerà con il primo settembre. La situazione, comunque, non è ancora precipitata. E se dovessi puntare su qualcosa, punterei sul fatto che non precipiti.
(Paolo Rossetti)
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