Una guerra che nei primi tre mesi è costata 260 milioni di dollari al giorno e che secondo la Banca centrale israeliana potrebbe bruciare, solo nel 2024, qualcosa come 19 miliardi. Eppure il costo bellico per Israele, che prima del conflitto cresceva del 6% l’anno, non dovrebbe influire più di tanto sulla gestione della guerra. Anche perché finora il sostegno USA si è fatto sentire. La guerra sta causando qualche problema a tutta l’area mediorientale, Egitto in primis, ma, come spiega Rony Hamaui, docente di scienze bancarie nell’Università Cattolica di Milano ed esperto di economia e finanza islamica, il mercato ha sviluppato una tale capacità di adattamento alle crisi che, come dimostra la riduzione del prezzo del gas dopo le fibrillazioni dovute all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, riuscirà a trovare il modo per ammortizzare gli effetti anche dello scontro a Gaza. Il settore dei mercantili, ad esempio, è pronto a mettere in circolo molte navi, riducendo il costo dei noli, salito a dismisura negli ultimi tempi: gli Houthi con le loro incursioni nel Mar Rosso potrebbero essere battuti dal mercato.
Professore, la guerra a Gaza per Israele è molto dispendiosa: il Paese è in grado di sostenere questo sforzo?
Per molti anni gli USA hanno sostenuto l’economia e la difesa israeliana. Quanto agli aiuti economici, sono terminati vent’anni fa. Gli Stati Uniti davano a Israele circa 3 miliardi all’anno, ma davano anche 1 miliardo all’Egitto e aiuti alla Palestina. Ovviamente questa guerra è molto dispendiosa, ma fino a quando ci sarà un ampio sostegno americano credo che lo sforzo bellico sia sostenibile. Israele, comunque, ha sempre combattuto guerre che sono durate poco: tranne quella del 1948 che è andata avanti per un anno e mezzo, tutte le altre sono durate poche settimane, se non meno, come la guerra dei Sei giorni. Questo conflitto, aperto da quasi cinque mesi, è molto più lungo. Le spese militari, comunque, finora sono state pagate in larga parte dagli USA.
Ma l’economia israeliana paga un costo per questa situazione?
La presenza di molti giovani al fronte e dei riservisti ha creato enormi problemi di manodopera, cui si aggiunge il fatto che c’erano migliaia di palestinesi che andavano a lavorare in Israele ogni giorno sia dalla Cisgiordania sia da Gaza. Uno choc, quindi, c’è stato, sia sul lato dell’offerta sia su quello della domanda. Ovviamente in una situazione di questo genere la gente va meno a mangiare fuori, si diverte e viaggia un po’ di meno. Tanto è vero che l’economia israeliana, che stava crescendo a tassi del 6% lo scorso anno, nell’ultimo semestre ha conosciuto un grosso tonfo. Chiuderà comunque con un segno positivo per la crescita del PIL, ma non ai livelli previsti. Si tratta di un’economia molto vitale, dal punto di vista tecnologico molto avanzata.
Quindi siamo di fronte a un conflitto ancora sostenibile?
Diciamo la verità: la guerra è quasi finita. Per lo meno questo pezzo di guerra, se non iniziano da un’altra parte.
Netanyahu ha dichiarato che le operazioni a Rafah dovrebbero finire prima del Ramadan. È credibile?
Prima del Ramadan mi sembra impossibile, però non siamo molto lontani. Le infrastrutture di Hamas sono state per il 90% distrutte. Qualche tunnel che collega all’Egitto sicuramente c’è, altrimenti non si spiegherebbe da dove arrivano le armi: per questo agli israeliani interessa tanto Rafah dal punto di vista strategico, sanno che è un canale dal quale può passare ancora tanto, sia in termini di uomini che di armi.
La leva economica, alla fine, potrebbe influire sulla durata della guerra?
Non penso. Certo, se la situazione sul fronte libanese o in quello cisgiordano dovesse variare, questo cambierebbe i termini del problema. Comunque ci sono ancora, credo, 200mila persone che sono state evacuate dal nord di Israele, anche queste pesano produttivamente perché non riescono a svolgere il loro lavoro.
Quanto conta l’aspetto economico nella questione palestinese?
Gli israeliani speravano che lo sviluppo economico scoraggiasse la guerra da parte dei palestinesi. A Gaza non è stato così. La situazione è un po’ diversa in Cisgiordania, dove ci sono zone, come quella di Ramallah, nelle quali c’è stato un forte sviluppo economico che ha mitigato le violenze e l’accanimento palestinese contro Israele, anche se non ha inciso in maniera così sostanziale. Ramallah è considerata la Tel Aviv dei territori occupati: si è creato un commercio importante, con molte attività, è l’unica parte dell’area che ha conosciuto un certo sviluppo.
Allargando il discorso al Medio Oriente, come questa guerra sta cambiando l’economia della regione? Il Paese più colpito, anche per le difficoltà a percorrere il canale di Suez dovute alle incursioni Houthi nel Mar Rosso, sembra l’Egitto. È così?
I problemi economici dell’Egitto vanno ben al di là di quelli del canale di Suez, dipendono dal fatto che l’apparato produttivo è in larga parte nelle mani dell’esercito ed è, in realtà, improduttivo. L’Egitto, comunque, verrà salvato dagli aiuti internazionali. Questa e altre crisi però hanno messo in evidenza un altro aspetto importante: il commercio e l’economia mondiale si sono rivelati in questi ultimi anni così flessibili e capaci di adeguarsi alle situazioni geopolitiche da neutralizzare, di fatto, gran parte delle guerre, sia commerciali sia non commerciali.
In quali situazioni è successo?
È stato così per le tariffe commerciali imposte dall’amministrazione Trump alla Cina, ampiamente compensate da Pechino grazie a Messico, Vietnam, Indonesia, dove in parte sono avvenute delle triangolazioni e in parte i cinesi hanno delocalizzato le loro produzioni. Di fatto, insomma, quelle tariffe non hanno avuto un grandissimo effetto. Lo stesso è successo per le sanzioni alla Russia, neutralizzate dalle triangolazioni fatte dalla Turchia e dai Paesi ex sovietici. Vale per tanti argomenti: il prezzo del gas oggi è inferiore a quando è cominciata l’invasione russa in Ucraina. L’economia mondiale ha mostrato una tale flessibilità che di fatto è riuscita ad assorbire tutti questi choc: figurarsi nel Medio Oriente per una guerra relativamente piccola e regionale.
I Paesi dell’area stanno comunque subendo un contraccolpo? Per i rischi di navigazione nel Mar Rosso, ad esempio?
Sì, c’è un rallentamento del turismo, alcune merci ora devono fare un percorso più lungo con maggiori costi di trasporto. Ma abbiamo, ad esempio, tantissime navi che stanno per essere varate: i costi dei noli, dopo un’impennata come quella che c’è stata in queste settimane, rientreranno come ha fatto il prezzo del gas. I costi della crisi del Mar Rosso verranno in qualche modo bypassati. Ci troviamo in un mondo multipolare, con una tecnologia facilmente esportabile, con tutte economie di mercato, tale insomma da fornire una grandissima elasticità al sistema economico internazionale.
(Paolo Rossetti)
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