“La guerra in Ucraina sta generando una perdita di valore aggiunto pari a oltre 16 miliardi di euro. A soffrire maggiormente i settori cosiddetti energivori: trasporti, prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio, chimica, prodotti metallurgici, costruzioni. Oltre 2,3 milioni, inoltre, le aziende attive nei settori maggiormente legati all’energia. Sono sei, in valore assoluto di perdita di valore aggiunto, i sistemi economici territoriali più colpiti: Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Veneto, Piemonte e Toscana, la cui contrazione della produzione, pari a 11,4 miliardi di euro, rappresenterebbe ben il 70% del dato complessivo italiano”.



È il conto del conflitto calcolato da uno studio dell’istituto Demoskopika che ha stimato il possibile impatto del conflitto sul tessuto produttivo per Regione relativo al 2022. Lo scenario si basa sull’ipotesi di una riduzione del 20% delle importazioni dirette e indirette di input energetici. E il costo di 16 miliardi, come spiega Raffaele Rio, presidente di Demoskopika, è un calcolo per difetto.



È un conto che quindi può crescere?

La nostra stima è sicuramente per difetto, per tre ragioni. La prima: nell’indagine abbiamo considerato solo i settori più energivori, e non tutti i comparti. Per esempio, il turismo non vi rientra, ed è comunque un asset molto importante dell’economia italiana. Basti un esempio: la mancanza di turismo russo e ucraino in Italia significa perdere, anche qui per difetto, circa 300mila presenze e poco meno di 200 milioni di euro.

E le altre due ragioni?

In secondo luogo, siamo partiti dall’ipotesi, formulata dall’Ocse nella primavera del 2022, di una riduzione del 20% delle importazioni dirette e indirette di input energetici, riduzione che negli ultimi tre-quattro mesi si è certamente amplificata. Infine, nelle nostre stime non sono compresi gli impatti sulle famiglie e sui consumi. Ecco perché i 16 miliardi sono una cifra per difetto, il conto della guerra è senz’altro più salato.



Qual è la miccia che ha provocato questo incendio che brucia risorse produttive?

Per dare una risposta esaustiva dobbiamo fare un passo indietro. Il sistema produttivo, a livello globale, e non solo in Italia, ha dovuto affrontare una doppia emergenza. Restando in Italia, il primo colpo è arrivato dal Covid, perché la pandemia ha indubbiamente fiaccato il nostro sistema produttivo. Poi si è aggiunta questa guerra, che ha ulteriormente peggiorato la situazione, ha prodotto una sorta di accelerazione dei problemi e dell’incertezza, tanto che molti imprenditori ci hanno detto che oggi è più conveniente fermarsi che continuare a produrre.

Quali sono i settori più colpiti?

Ad essere più penalizzati sono ovviamente gli energivori, in particolare i trasporti, con una mancata crescita del valore aggiunto pari a 7,8 miliardi, e i prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio, i prodotti chimici e farmaceutici, che perdono 3,6 miliardi: questi due comparti rappresentano ben il 70% della contrazione complessiva. Seguono poi altri sei settori la cui mancata produzione stimata supererebbe i 300 milioni di euro: macchinari, apparecchiature elettriche e prodotti elettronica” (-1,06 miliardi); fornitura energia elettrica e gas (-911 milioni); costruzioni (-509 milioni); attività metallurgiche e prodotti in metallo (-471 milioni); agricoltura (-356 milioni), legno, carta e stampa (-317 milioni) e gomma e plastica (-315 milioni).

A livello geografico quali sono le aree maggiormente in sofferenza?

Sono principalmente i sistemi produttivi del Nord a soffrire di più per l’ulteriore incremento dei prezzi energetici e per la difficoltà di reperimento delle materie prime. In valore assoluto di perdita di valore aggiunto, i sistemi economici territoriali più colpiti sono Lombardia (3,94 miliardi di euro), Emilia-Romagna (1,74 miliardi), Lazio (1,70 miliardi), Veneto (1,49 miliardi), Piemonte (1,44 miliardi) e Toscana (1,04 miliardi). Se invece rapportiamo la contrazione stimata del valore aggiunto al numero delle imprese nei settori individuati per  Regione, al fine di una confrontabilità del dato, i maggiori riflessi negativi sull’attività economica riguardano, in termini relativi, la Lombardia con una mancata crescita del valore aggiunto pro capite pari a 11.787 euro pro capite, seguita dalla Liguria con -11.176 euro, il Lazio con -9.163 euro, l’Emilia-Romagna con -8.923 euro e il Piemonte con -8.216 euro pro capite.

Perché avete scelto come indicatore della crisi il valore aggiunto?

Perché lo abbiamo considerato come il più performante ai fini della nostra ricerca. Innanzitutto, perché il valore aggiunto consente di misurare la crescita del sistema economico in termini di nuovi beni e servizi disponibili per gli impieghi finali. E poi perché è un dato disponibile su Istat non solo a livello di tessuto produttivo regionale, ma anche per settori.

Oltre a petrolio e gas, anche la carenza di altre materie prime sta creando grossi problemi al nostro tessuto produttivo?

Prendiamo il caso del palladio. Le difficoltà a reperirlo da Russia e Ucraina, da cui importiamo il 30% del nostro fabbisogno, va a ripercuotersi negativamente nella produzione italiana di prodotti odontoiatrici, marmitte catalitiche e componenti elettronici presenti nei nostri smartphone e televisori. Insomma, interessa prodotti di uso comune acquistati dai consumatori italiani.

Il vostro scenario si basa su una contrazione del 20% degli input energetici. Qualora si arrivasse all’interruzione totale delle forniture di gas e petrolio dalla Russia la perdita del valore aggiunto si moltiplicherebbe per 5?

Non sarebbe, per fortuna, così. Il governo Draghi si sta attrezzando per reperire presso altri Paesi nuove fonti di approvvigionamento energetico, così da compensare in parte le riduzioni dei flussi di energia e materie prime dalla Russia. Quindi, un blocco totale sarebbe in parte attutito e ciò basterebbe a far sì che non si moltiplichino per 5 quei 16 miliardi. Comunque, in caso di interruzioni totali da Mosca, possiamo stimare grosso modo una maggior perdita di valore aggiunto di almeno 30-40 punti percentuali.

L’agenzia di rating Fitch prevede che l’Italia andrà in recessione nel 2023 e Confcommercio parla di “recessione mite”. Secondo lei, una recessione è alle porte?

Credo che noi avremo una tendenza alla riduzione del Pil in questo 2022, proprio a causa di questi eventi, e che nel 2023, stando a varie previsioni di diverse agenzie internazionali, ci sarà una crescita dell’1,6-1,8%. Ma le stime si basano anche sull’andamento dei prezzi delle materie prime, e questo è, purtroppo, il vero problema.

Perché?

Prendiamo petrolio, gas, carbone, ma anche grano e mais: come le oscillazioni, a salire o scendere, di questi prezzi condizioneranno nei prossimi mesi e nei prossimi anni l’andamento del Pil? Non è semplice stimare se ci sarà recessione profonda, recessione mite o nessuna recessione. Di certo, siamo nel pieno di uno shock economico.

Lei auspica che il nuovo governo protegga il tessuto produttivo e sociale italiano, altrimenti – come le hanno confermato molti imprenditori – “sarà più conveniente fermarsi che produrre”. Siamo ormai a questo punto? Rischiamo una deindustrializzazione?

Rispondo con un esempio. Uno degli obiettivi del reddito di cittadinanza è quello di contrastare la povertà, riducendo il disagio sociale. Ma, dal punto di vista economico, uno dei maggiori difetti del Rdc è la costruzione psicologica della cosiddetta “trappola della povertà”. In pratica, un soggetto che riceve un sussidio di 800 euro, qualora gli venisse offerto un lavoro da mille euro, probabilmente vi rinuncia, perché trova preferibile stare all’interno del reddito di cittadinanza.

Cosa c’entra il reddito di cittadinanza con il tessuto produttivo e con il fatto che gli imprenditori sono costretti a non riaprire la propria attività?

Ho usato l’esempio del Rdc perché l’aumento costante dei prezzi dell’energia, per alcuni settori o per alcuni imprenditori, può determinare una flessione delle decisioni di investimento.  In soldoni, potrebbe essere più conveniente fermare le macchine, sospendere i costi di produzione e del lavoro piuttosto che andare avanti. L’erosione dei margini potrebbe rendere anti-economica l’attività stessa. Ecco perché parlo di un rischio di “trappola della povertà produttiva”. È questo sarebbe molto, molto pericoloso.

Ne avremmo un impatto pesantissimo, a partire dai livelli occupazionali? Avete delle stime su quanto costa la guerra in termini di posti di lavoro persi?

Questo sarà oggetto della prossima indagine, ma la prima conseguenza, immediata, della “trappola della povertà produttiva” sarà proprio la perdita dei posti di lavoro. Stiamo parlando di 2,3 milioni di imprese italiane attive nel comparto energetico, il che significa migliaia, migliaia e migliaia di maestranze.

Si tratterebbe di chiusure temporanee o definitive?

Attenzione: parlare di chiusura temporanea è una previsione ottimistica, anche perché, una volta cessata la produzione, non sarà poi così semplice né automatico che quella fabbrica riapra, che quella produzione riparta. È indubbio che andremmo incontro a una preoccupante emorragia di posti di lavoro. Non a caso abbiamo lanciato al nuovo governo che verrà un appello alla responsabilità.

A tal proposito, per uscire da questa emergenza lei suggerisce, da un lato, la necessità di “attuare il Pnrr” e, dall’altro, di “calmierare il crollo della fiducia degli operatori economici che disincentiva le loro decisioni di investimento”. Come lo si può fare?

Tre interventi. Il primo: ogni Regione, soprattutto al Sud, ha a disposizione dei fondi strutturali comunitari, e parliamo di cifre consistenti. Perché, come è stato fatto durante la pandemia Covid, anche per questa fase bellica non pensiamo a deroghe ad alcune regole di programmazione dei fondi Ue, prevedendo un coefficiente di riserva per famiglie e imprese da inserire in un unico capitolo di spesa nazionale?

I vantaggi?

In tal modo ci troveremmo con un castelletto di risorse molto importanti, che potremmo destinare, da un lato, al recupero del clima di fiducia degli operatori economici, rilanciando decisioni d’investimento e calmierando le perdite, e, dall’altro, di riaccendere la macchina dei consumi delle famiglie. Rimettiamo in moto i due fattori della domanda e dell’offerta che possono abbattere al massimo il rischio delle conseguenze post-pandemiche, su cui il conflitto russo-ucraino ha agito come benzina sul fuoco.

Il secondo intervento?

A livello Ue, possiamo stabilire un tetto d’emergenza, per un periodo determinato, non solo al prezzo del gas, ma anche di materie prime e loro derivati, dal petrolio ai carburanti, così da evitare brusche oscillazioni all’insù delle loro quotazioni? Ogni oscillazione è direttamente proporzionale alle conseguenze negative che poi si riversano sui sistemi economici.

E l’ultima ricetta?

Occorrono un maggior coordinamento, una concertazione più efficace e soprattutto una migliore programmazione fra esigenze regionali e governo centrale nell’attuazione del Pnrr, recependo i fabbisogni produttivi territoriali. La nostra ricerca, infatti, rivela che ogni Regione è colpita in modo diverso da questa crisi. L’attuazione del Pnrr va programmata in misura condivisa e coerente fra istituzioni centrali e autonomie regionali.

(Marco Biscella)

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