A inizio aprile i McDonald’s inglesi hanno cominciato a ridurre le fette di pomodoro negli hamburger. In questo modo la catena ha contenuto i danni provocati dal calo della produzione in Olanda e dallo stop dell’export imposto dalle autorità marocchine, preoccupate di garantire la domanda interna durante il Ramadan.



Un caso tra i tanti che aiutano a capire il fenomeno del protezionismo agricolo, ricaduta solo in parte prevista del conflitto in Ucraina. Nelle ultime settimane, assieme all’impennata dei prezzi delle materie prime, 19 Paesi hanno alzato barriere protettive sull’agricoltura, per un importo pari al 17,3% delle calorie scambiate nel mondo. 



I divieti hanno riguardato merci di vario tipo. L’Iran ha vietato l’export delle patate, la Turchia quello dei fagiolini. La penuria di olio di girasole, quasi un monopolio dell’Ucraina che assieme alla Russia controlla l’80% del mercato mondiale, ha provocato la risposta dell’Indonesia, che ha vietato l’export dell’olio di palma, il più comune sostituto per l’industria alimentare (ma anche per lo shampoo), per evitare una carenza sul mercato domestico. Quasi sempre i Governi hanno scelto di difendere il potere d’acquisto dei consumatori rispetto alle richieste degli agricoltori, assai meno numerosi. Ma l’operazione ha coinciso con un altro effetto perverso della guerra: l’aumento vertiginoso del prezzo dei fertilizzanti, fortemente dipendenti dalla produzione russa e legati a filo doppio al prezzo del gas naturale.



Si sono così poste le premesse per una crisi del mondo agricolo che minaccia gli equilibri alimentari del pianeta. Secondo il Fondo monetario internazionale, i 45 Paesi dell’Africa sub-sahariana sono destinati a registrare un aumento dell’inflazione superiore al 12% di qui a fine anno. Alcuni, ovvero 8 su 45, possono compensare le maggiori spese con i maggiori introiti derivanti da petrolio e gas naturale, grazie alla “fame” di energia dell’Occidente, Italia in testa. Ma l’effetto positivo sarà solo parziale: molti Paesi, pur producendo petrolio debbono importare benzina a causa del fatto che non dispongono di impianti di raffinazione. Valga come esempio la Nigeria, che pur essendo il primo produttore africano di petrolio, importa tutta la benzina che le serve. L’Opec certifica che nel 2020 la Nigeria ha speso 71,2 miliardi di dollari per l’importazione di prodotti petroliferi raffinati, mentre dalla vendita di petrolio grezzo ha incassato 27,7 miliardi di dollari. Un saldo negativo di oltre 43 miliardi di dollari.

Non è un’esclusiva dell’Africa. In Argentina, Paese che ricava il 70% delle sue entrate internazionali dal commercio di beni alimentari, l’agricoltura è alle prese con l’aumento dei fertilizzanti (+55%), senza ricevere sostegni dal Governo, affamato di valuta per ripagare i debiti accumulati in nome di una politica fiscale di stampo peronista. Insomma, il conflitto in Ucraina sta mettendo a dura prova l’economia globale già provata dalla pandemia. Per paradosso, il problema non riguarda almeno per ora la produzione. Secondo l’Igc, l’organizzazione che monitora la produzione di cereali nel mondo, la produzione mondiale di grano dovrebbe ammontare attorno ai 193 milioni di tonnellate per quest’anno, solo un milione in meno del 2021. Certo, 25 milioni di tonnellate di grano sono per ora ferme in Ucraina, a causa delle infrastrutture colpite e dei porti bloccati dal conflitto, ma l’export russo e di Kiev potrebbe ripartire e sarà compensato da un aumento delle vendite dal Nord America. 

Ma a mettere in ginocchio i Paesi più vulnerabili potrebbe essere il protezionismo agricolo combinato con la rottura della catena internazionale della produzione e degli scambi commerciali. Il cibo rischia di costare troppo per i Paesi poveri, già oggi agitati dallo spettro della fame. E l’aumento del prezzo del cibo, dei fertilizzanti, dei prodotti energetici, non farà altro che peggiorare il debito commerciale di molti Paesi che rischiano di trovarsi di fronte a un muro: l’aumento delle spese militari, infatti, probabilmente ridurrà le cifre a disposizione della cooperazione internazionale. E l’aumento dei tassi in Occidente, combinato con la corsa del dollaro, aggraverà il problema. 

Insomma, il costo della guerra è catastrofico per tutti. Ancor peggio per i più poveri, vittime del protezionismo agricolo, frutto della paura. 

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