Non mettere fine alla guerra, ma punire. Ma neppure a Norimberga i vincitori, che processarono evidentemente i nazisti sconfitti e non se stessi, volevano punire. Volevano fare giustizia e quell’esperienza riuscì. Invece oggi leader mondiali come Biden o von der Leyen fanno dichiarazioni impressionanti (come le ultime di J. Borrell), inconciliabili con la costruzione della pace in Ucraina. Questo il messaggio politico di Annalisa Ciampi, ordinaria di diritto internazionale nell’Università di Verona, già Special Rapporteur delle Nazioni Unite sui diritti alla libertà di associazione e di riunione pacifica.
Assemblea Onu, Consiglio dei diritti umani, Corte internazionale di giustizia, Corte penale internazionale, tribunali internazionali e nazionali: intorno all’invasione russa dell’Ucraina e agli eccidi di Bucha e altre località sono stati messi in campo i principali strumenti previsti dal diritto internazionale. Ecco come funzionano.
Queste Nazioni Unite si possono chiudere, ha dichiarato Zelensky, mentre papa Francesco le ha rimproverate di essere “impotenti”. Da che cosa dipende?
Non è la prima volta che le Nazioni Unite dimostrano di non sapere dirimere le controversie internazionali o di evitare le guerre. Ma questo accade by design, per come sono concepite. L’Onu è stato disegnato concentrando i poteri nel Consiglio di sicurezza, in cui 5 Stati sono membri permanenti e hanno il diritto di veto. Questo sistema, che risale al 1945, ha una sua razionalità: l’idea che l’Organizzazione non possa intervenire contro la volontà di quelli che allora erano i poteri forti del mondo. Ma è successo solo nel 1950, in occasione della guerra delle due Coree.
Che cosa garantì l’intervento dell’Onu?
La “politica della sedia vuota” adottata dall’Unione Sovietica: l’Urss non sedeva nel Consiglio di sicurezza per protesta contro l’ammissione alle Nazione Unite di Stati nell’orbita occidentale. Il Consiglio di sicurezza deliberò comunque, di fatto autorizzando gli Stati a liberare la Corea del Sud. Da allora la politica della sedia vuota non è stata più praticata, perché ritenuta controproducente.
Riepiloghiamo alcuni recenti passaggi. Il 26 febbraio scorso, quando il Consiglio si è riunito per condannare l’aggressione russa all’Ucraina, ha incontrato il veto della Russia.
Perfettamente prevedibile. Al veto della Russia sono peraltro da aggiungere l’astensione della Cina, dell’India e degli Emirati. Nel 2014, quando ci fu l’invasione della Crimea, ugualmente la Russia esercitò il diritto di veto, ed è significativo il fatto che nessuno allora protestò. Neppure gli Stati Uniti.
Può ricordarci un veto posto da Washington nel contesto di questa crisi?
È accaduto due settimane dopo, l’11 marzo, quando la Russia ha chiesto la convocazione del Consiglio e ha proposto una risoluzione per condannare il programma di armi biologiche degli Usa in Ucraina. Mosca ha incontrato ovviamente l’opposizione di Regno Unito e Stati Uniti, e non è stata nemmeno messa al voto.
Che cosa possiamo concludere?
Le Nazioni Unite non funzionano non per qualche fattore accidentale, o a causa della complessità delle crisi da affrontare, o per cattiva volontà politica. Ma perché sono state disegnate per non funzionare contro la volontà di uno dei membri permanenti. Quello su cui si può discutere e se quei 5 voti permanenti stabiliti nel ’45, quando le Nazioni Unite contavano 51 Stati membri (oggi sono 193!) riflettano i reali rapporti di forza oggi.
Si può riformare l’Organizzazione?
C’è un processo di riforma in atto, ma non ha grandi possibilità di andare in porto perché richiede, oltre ad almeno i 2/3 degli Stati membri dell’Assemblea generale, il consenso degli stessi cinque Stati membri permanenti. La diplomazia italiana è da anni impegnata a contribuire ad una riforma che renda il Consiglio di Sicurezza maggiormente democratico, rappresentativo, efficace e responsabile. Finora un’operazione impossibile. Ma non credo che una strada potrebbe essere quella di fare a meno del Consiglio e di mantenere solo l’Assemblea generale: un organo plenario, democratico, in cui gli Stati hanno uguale peso. Ma per la quale poi si presenta il problema di applicarne le delibere.
Cioè il ricorso all’uso della forza.
Esattamente: la possibilità di usare la forza o comunque la volontà politica. Non dimentichiamo che l’Onu prende decisioni politiche e assume su di sé il monopolio dell’uso della forza. Il Consiglio di sicurezza è un organo politico, è fatto di rappresentanti di Stati, non di esperti indipendenti. Che il Consiglio abbia un riscontro nei poteri reali della società internazionale non è un difetto, è una condizione di effettività dell’Organizzazione.
Che cosa si fece dopo la guerra di Corea, davanti all’evidenza del fatto che più nessuno si alzava dalla sedia?
L’Assemblea adottò la risoluzione “Uniting for peace”, che consente al Consiglio, con un voto procedurale, di convocare l’Assemblea generale. È quello che è successo: quando la Russia in Consiglio ha messo il veto alla condanna dell’invasione dell’Ucraina, all’indomani con 11 voti su 15 è passata la convocazione dell’Assemblea generale, la quale ha poi condannato l’invasione chiedendo il ritiro incondizionato della Russia, con 141 voti a favore. Ma anche con 5 voti negativi e 35 astensioni, che con Cina e India rappresentano una parte non trascurabile del mondo.
Nell’arco di pochissime settimane sono stati attivati tutti gli strumenti presenti nell’ordinamento giuridico internazionale. Del Consiglio di sicurezza Onu abbiamo detto. Cosa può dirci della decisione della Corte internazionale di giustizia?
La Corte, organo giudiziario dell’Onu, giudica della responsabilità degli Stati. Accogliendo la richiesta di misure cautelari dell’Ucraina, ha accolto la soluzione creativa da questa prospettata, perché l’Ucraina ha agito contro la Russia sulla base della Convenzione sul genocidio del 1948, non accusando la Russia di genocidio ma chiedendo alla Corte di tutelare il proprio diritto di non essere soggetta all’accusa di genocidio nel Donbass, genocidio asserito come giustificazione dell’invasione da parte di Mosca. È un’azione di accertamento negativo, che ha consentito alla Corte di pronunciarsi sulla guerra in atto.
Ma che cosa ha deciso e/o deciderà la Cig e quali accertamenti ha prodotto per negare che nel Donbass l’Ucraina abbia commesso genocidio?
La Corte si è pronunciata solo sulle misure cautelari, ordinando alla Russia, in via cautelare appunto, di sospendere immediatamente le operazioni militari. Per fare questo ha accertato, sia pure a titolo di valutazione preliminare, che le accuse della Russia circa l’esistenza di un genocidio nel Donbass sono infondate.
Dopo i fatti di Bucha l’Assemblea generale dell’Onu ha adottato una risoluzione che sospende la Russia dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Di che si tratta?
Il Consiglio per i diritti umani è un organo sussidiario dell’Assemblea generale con il compito di promuovere e proteggere i diritti umani. Il 3 marzo scorso, il Comitato ha approvato una risoluzione che istituisce una commissione per accertare le violazioni dei diritti umani commesse durante l’invasione dell’Ucraina, anche allo scopo di raccogliere prove che poi potranno essere messe a disposizione della Corte penale internazionale o di altri tribunali penali internazionali o nazionali. Del Comitato, composto da 47 Stati eletti dalla stessa Assemblea generale, fa parte anche la Russia (che naturalmente aveva votato contro la risoluzione). Il 7 aprile, in risposta ai fatti di Bucha, l’Assemblea generale ha votato un’altra risoluzione che sospende la partecipazione della Russia dal Comitato dei diritti umani (questa volta i voti contrari sono stati 24 e le astensioni 58).
Anche la Corte penale internazionale (Cpi) è stata attivata. Cosa può dirci?
Era già stata attivata in passato perché l’Ucraina, pur non facendo parte dello statuto, aveva fatto due dichiarazioni ad hoc in cui accettava la giurisdizione della Corte: una prima per i fatti del 2013-2014, e una seconda per crimini commessi nel suo territorio dal 2014 in avanti, e che quindi copre anche l’attuale invasione. In questo caso il procuratore non ha avuto bisogno di chiedere l’autorizzazione ad aprire una indagine d’ufficio, perché ben 42 Stati (ad oggi), tra i quali anche l’Italia, gli hanno chiesto di procedere. Di per sé l’indagine riguarda qualunque accusa di crimini di guerra, contro l’umanità e di genocidio commessi da chiunque in qualunque parte del territorio dell’Ucraina.
E il crimine di aggressione?
È un crimine entrato nella giurisdizione della Cpi dopo l’entrata in vigore del suo statuto, ma il suo esercizio è possibile solo in circostanze limitate. Di cruciale importanza per l’Ucraina, i leader degli Stati non appartenenti alla Corte come la Russia – ma anche Stati Uniti e Cina! – non possono essere processati per aggressione, a meno che il Consiglio di Sicurezza non faccia un rinvio alla Corte, a cui la Russia naturalmente porrebbe il veto. Vorrei anche sottolineare una cosa.
Prego.
È significativo che della possibile incriminazione di Putin per aggressione nessuno parli più, e ci si concentri sulle uccisioni di civili perpetrate dalle forze russe. L’incriminazione per aggressione è stata fatta finora una volta sola, dal Tribunale di Norimberga, il cui statuto la prevedeva fra i “crimes against peace”. La stessa Cpi non ha mai esercitato la propria giurisdizione in relazione all’aggressione.
Adesso in Cpi a che punto siamo?
Non siamo ancora all’apertura di un caso, che implica l’individuazione di una fattispecie criminosa e di una persona responsabile, cui di regola si accompagna l’emissione di un mandato di arresto.
Torniamo ai fatti di Bucha.
Fatti come quelli di Bucha possono configurare crimini di guerra, ma anche crimini contro l’umanità. La loro perseguibilità come crimini internazionali sotto il profilo materiale non mi pare problematica. L’aspetto problematico è che la Cpi non può celebrare i processi in absentia. Fino a che un mandato di arresto non viene eseguito, il processo non parte.
È evidente che stiamo parlando di Vladimir Putin. Chi può eseguire il mandato?
Tutti gli Stati parte della Cpi (oggi sono 123) avrebbero l’obbligo internazionale di arrestarlo e consegnarlo alla Corte. Ma prima c’è anche un altro problema: la commander responsibility.
Qual è l’ostacolo?
Non è stato Putin in persona a commettere gli eccidi e non è così facile risalire nella catena di comando. La giurisprudenza della Corte ad oggi ci dice che le probabilità sono 50-50: in alcuni casi si riesce a provare la responsabilità diretta, in altri casi non si riesce a provare e il commander va assolto.
Ci sono altre strade per arrivare a giustizia nel ventaglio di soluzioni che stiamo esaminando?
Ci sarebbe la possibilità di istituire in sede Onu un tribunale speciale come è stato per la ex Jugoslavia e per il Rwanda, ma poiché tali corti sono istituite dal Consiglio di sicurezza, si pone il problema del veto. Rimane un’altra possibilità, quella dei processi da parte dei tribunali nazionali. Ma neppure questi ultimi sono esenti da problemi.
Può farvi un breve accenno?
Di fronte ai tribunali nazionali, il problema principale di qualunque incriminazione nei confronti di Putin è l’immunità di un capo di Stato in carica. Sulla base del diritto internazionale, la Cpi può perseguire anche il presidente della Federazione Russa, ammesso che riesca ad arrestarlo. Mentre è fortemente dubbio che questo sia possibile per i tribunali nazionali.
Ma come si possono fare indagini e raccogliere prove con la guerra ancora in corso?
Raccogliere prove è importante. Ma quando la guerra è in atto, la priorità dovrebbe essere quella di porvi fine il prima possibile. L’ipotesi di un processo a chi aveva scatenato la seconda guerra mondiale ha cominciato a prendere forma prima del ’45, ma la Carta di Londra con lo statuto del Tribunale militare internazionale di Norimberga è stata siglata dopo la resa della Germania, non prima.
Intende dire che siamo in presenza di tentativi politicamente strumentali?
Guardi, io insisto nel dire che l’esperienza del Tribunale di Norimberga ha molto da insegnarci ed è molto interessante, perché a volerla fu l’Unione Sovietica. Quando le potenze vincitrici ne discussero, il Regno Unito riteneva che i crimini nazisti fossero talmente gravi da meritare “summary executions”, che non avesse senso perdere tempo in un processo.
Ma non è andata così.
Non andò così, anche perché per gli Usa prevalse la posizione del procuratore capo Robert H. Jackson, giudice della Corte suprema, secondo il quale occorreva un processo sia per accertare le responsabilità, sia perché di quei fatti – argomentò – avessero memoria le generazioni future.
Nondimeno è stato il processo dei vincitori. È inevitabile.
È stato il tribunale dei vincitori perché fu istituito dagli Alleati e processò soltanto i crimini nazisti per definizione, non quelli commessi dagli Alleati. Criticabile per l’applicazione della ex post facto law, non disponeva neppure di una codificazione dei crimini come la conosciamo oggi. Nonostante questi difetti intrinseci, ha avuto una grande legittimità, perché ha fatto le cose bene. Ed era buona l’idea fondamentale: non punire, ma fare giustizia: per le vittime e per le generazioni future. Il significato dei tribunali di giustizia, io ritengo, dovrebbe essere lo stesso ancora oggi.
“Questa guerra deve essere vinta sul campo di battaglia” ha twittato l’alto rappresentante per la politica estera europea Josep Borrell da Kiev. Un politico europeo non si era mai espresso in questi termini.
È una dichiarazione bellicista che trova corrispondenza nel linguaggio delle maggior parte delle dichiarazioni che sono state rese fin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Mi ha molto stupito, ad esempio, che la von der Leyen non abbia difeso le sanzioni alla Russia come strumento per mettere fine alla guerra, ammesso e non concesso che funzionino, ma per “fare male” a Putin. Ho studiato i dibattiti in Consiglio di sicurezza dall’invasione della Georgia nel 2008 a quella della Crimea nel 2014, Bush diceva “dobbiamo fermare”, non “dobbiamo punire”. E neppure lo diceva Obama. Questo è il grande cambiamento operato da Biden, ed è sconvolgente in un presidente democratico. E mi stupisce che nessuno in Occidente lo dica.
(Federico Ferraù)
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