Il rischio sanitario della pandemia è quasi concluso, almeno nelle forme gravi che lo distinguevano due anni fa, quando il sistema sanitario, i decisori politici e la popolazione erano impreparati a fronteggiare un fenomeno così ampio e persistente.

Sin dai primi momenti, la pericolosità e l’elusività del virus hanno generato disorientamento e senso di impotenza nella gente. Nel 2020, siamo passati da sensazioni di stupore e timore per l’altalenarsi del contagio alla speranza aperta dai vaccini; poi, nel 2021, ad un nuovo scoramento per il ripetersi di fiammate infettive attribuite a questa o quella variante di un virus evidentemente capace di fare il bello e il cattivo tempo. Poi, fortunatamente, il ceppo prevalente del virus si è evoluto in modo da spaventare meno.



Abbiamo volutamente usato termini che fanno riferimento a sensazioni comuni, piuttosto che alla dottrina medico-sanitaria, perché, nel mondo, si sta preparando un dopo-pandemia che avrà connotazioni che saranno solo in parte medico-sanitarie, mentre prevarranno quelle economiche e psico-sociali.

Risultati di indagini svolte presso decine di paesi nell’ambito del progetto GBD – Global Burden of Diseases, pubblicati dalla prestigiosa rivista Lancet – hanno stimato, per la sola prima metà del 2020, 53 milioni di nuovi casi di gravi disturbi depressivi e 45 milioni quelli da ansia grave causati direttamente dalla pandemia. Naturalmente, a questi vanno aggiunti – con sintomi più gravi – i molti milioni di casi pre-esistenti (circa il doppio di quelli causati dalla pandemia). Segnaliamo, inoltre, che, nel computo, mancano gli altri milioni del 2021, 2022 e 2023.



La meta-analisi GBD-Lancet confronta dati sulla depressione cosiddetta “maggiore” e sull’ansia grave prima e dopo la pandemia, il che significa che questi disturbi sono endemici e che la pandemia ha solo contribuito a farne emergere un gran numero di nuovi. L’analisi dimostra che esiste una forte relazione con l’intensità del diffondersi del contagio, ossia che i disturbi sono più diffusi nei periodi e nelle aree di maggiore infezione da Covid. Il disagio psichico sarebbe dunque causato sia dall’intensità del fenomeno infettivo, sia dalle correlate limitazioni alla mobilità e alle relazioni sociali.



Le analisi dello studio citato collocano l’Italia in un’area di disagio intermedia, con un incremento tra il 22 e il 25% di aumento di psicosi durante la pandemia. Valori superiori ai nostri sono stati rilevati, tra gli altri paesi, negli Stati Uniti, in Spagna e in Francia.

In Italia, sono stati svolti vari studi sull’incidenza della depressione e dell’ansia grave. Due sono inglobati nello studio riportato in Lancet; altri, più recenti, si possono trovare tramite Google. Ne abbiamo consultati molti, però le fonti dei dati e i metodi utilizzati sono così diversi da studio a studio da non poterne trarre inferenze probanti. Certamente non sull’entità del fenomeno, che sembra variare da meno del 10% a oltre il 40%. Per quanto riguarda le cause, gli studi concordano sul fatto che i più colpiti dal disagio psichico sono le donne, i giovani, coloro che vivono soli, oppure soffrono di malattie croniche o di ansie o stress, di uno status socio-economico basso o di incertezze professionali (ma su quest’ultima causa non tutti sono d’accordo). Tra il personale sanitario, la depressione è determinata da “stress da prima linea”, ossia da fatica e da paura di ammalarsi.

Nella seconda metà del 2021 abbiamo svolto una nostra indagine nazionale. Abbiamo consultato tramite il web un campione di italiani, rilevando, tra le altre cose, il livello di depressione tramite il test psicometrico standardizzato PHQ-9, (Patient Health Questionnaire, di 9 domande poste su scala da 0 a 3, dove 0 significa “Mai” e 3 “Quasi ogni giorno”). Il punteggio-test ha una soglia di 10 come somma delle risposte registrate sulle 9 domande: valori da 10 in poi indicano casi a rischio di depressione. Vale, ovviamente, che quanto maggiore è il punteggio, tanto più grave è la segnalazione di depressione. Per esempio, valori da 10 a 14 indicano depressione lieve, quelli superiori a 20 indicano il probabile manifestarsi di una grave depressione. In tutti gli studi in cui è stato applicato, compreso il nostro, il valore soglia è stato fissato a 10 per favorire il confronto tra risultati.

I risultati del nostro test, presentati nella forma di percentuali di depressi con punteggio-test di 10 o più, incrociati con alcune caratteristiche dei rispondenti stessi, sono sintetizzati nella Tabella 1.

Tabella 1. Frequenze percentuali di casi di grave depressione diagnosticata con il test PHQ-9 in Italia, anno 2021, per caratteristiche dei rispondenti, giugno-ottobre 2021.

Caratteristica Modalità % depressione maggiore
Età (anni) Fino a 34 37,5
35-64 12,7
65 e più 11,1
Genere Maschi 14,9
Femmine 31,2
Contagiato/a? 20,9
No 24,0
Vaccinato? 22,0
No 42,6
Totale 23,7

Ringraziamo la dott.ssa Daiana Colledani per l’aiuto fornito elaborando i dati del test.

L’analisi dei risultati della nostra indagine corrobora quelli dell’indagine GBD-Lancet e di indagini parallele e permette di avanzare nuove ipotesi. Anzitutto, si conferma la consueta prevalenza femminile: ad ogni età, le donne mostrano un’incidenza e una persistenza della malattia doppia rispetto agli uomini. Lo stesso differenziale tra generi si registra durante la pandemia, anzi i nuovi casi negli ultimi due anni hanno reso ancora più evidente il fenomeno della maggiore esposizione delle donne al “male oscuro” della depressione.

La classe d’età più a rischio di depressione è quella giovanile, seguita da quella da lavoro. Le indagini GBD mostrano che persino tra i minori, ossia nella classe d’età tra i 10 e i 18 anni, l’incidenza della depressione quasi uguaglia quella tra i 19 e i 44 anni, che sono gli anni durante i quali imperversa la malattia, e, sempre tra i minori, l’incidenza è di gran lunga superiore a quella che si riscontra tra gli anziani, che si dimostrano la parte della popolazione più solidamente forgiata alle prove della vita.

Questa elevata incidenza del disturbo psichico riflette, tra i giovanissimi, l’incertezza sul loro inserimento nella vita adulta e, tra i giovani adulti, l’incertezza sulla propria occupabilità, che possono ingigantirsi se percepiscono che uno shock sociale può limitare ulteriormente il loro inserimento. Questo è verificabile durante ogni grave crisi mondiale, per esempio durante la crisi economico-finanziaria del 2008-2012. In Grecia, in quel periodo, la frequenza di episodi depressivi è salita, in breve tempo, dal 3,3% del 2007 all’8,2% del 2011. Aumenti di notevole entità si verificarono allora in tutto il mondo.

È istintivo associare l’ansia grave e la depressione maggiore al rischio di altre malattie e al suicidio. Tuttavia, nel periodo pandemico non sono aumentati i suicidi: la paura di stare male a causa del Covid non ha affatto aumentato il rischio di suicidio. Non solo, ma lo studio GBD non ha trovato un legame statistico neppure col tasso di mortalità, ossia con la massima gravità possibile dell’infezione. Per di più, dai nostri dati, emerge che il contagio conta poco o nulla nel determinare l’aggravarsi di un percorso depressivo: i contagiati hanno addirittura una probabilità inferiore o tutt’al più uguale di cadere nella depressione rispetto ai non contagiati. Comunque sia, il fenomeno della depressione è ben più ampio di quello del contagio: nella nostra indagine, abbiamo rilevato un 23,7% di disturbi depressivi contro un 7,7% di casi di Covid accertati.

Se, allora, i disturbi mentali non sono correlati con il contagio, neppure con quello dei famigliari, vuol dire che i percorsi mentali che portano ai disturbi sono molto più tortuosi e complessi da decifrare delle semplificazioni offerte da una comunicazione sociale spesso superficiale.

La nostra indagine mostra che la probabilità di depressione è molto elevata tra i no-vax, tra chi vive solo, tra chi vede soffrire gli altri. Non solo, ma i disturbi non si sono accompagnati a comportamenti devianti, come l’abuso di alcolici (Tabella 2). La malattia sembra, dunque, il riverbero interno di situazioni di accerchiamento, di angoscia causata dalla difficoltà di percepire una via di fuga dalla pandemia, di panico causato dal cumulo di disagi e rinunce che il prolungarsi della pandemia induce ad affrontare. È facile immaginare che la sensazione d’impotenza nel fare fronte alle difficoltà e nel prefigurarsi un futuro stia alla radice del male.

Tabella 2. Frequenza percentuale di casi di depressione e distribuzione percentuale della popolazione italiana, secondo il consumo di alcolici e i problemi causati dalla convivenza forzata durante il lockdown

Domanda Risposte % casi depressione % popolazione
Danni personali Fisici 18,8 2,9
Psichici 57,3 17,3
Fisici e psichici 47,2 6,5
Nessuno 14,0 73,4
Danni a famigliari Fisici e/o psichici 23,7 17,3
Durante la pandemia, bevuto Più vino 27,9 11,0
Stesso di prima o meno 36,0 89,0
Durante la pandemia, bevuto Più superalcolici 27,9 9,0
Stesso di prima o meno 36,0 91,0
Convivenza forzata Molti problemi duraturi 64,3 3,6
Stesso andamento di prima 22,7 63,7
Rinforzato i legami di famiglia 11,8 32,7
Vive solo 31,0 30,2

Conviene dire che il test usato per le analisi commentate, il PHQ-9, chiede di descrivere i comportamenti nelle due settimane precedenti l’intervista, con l’intento esplicito di evidenziare l’importanza attuale del malessere per l’individuo. Sappiamo che questo è inevitabile, dato che non si possono percepire i sintomi futuri, ma è altrettanto indubbio che se, nell’analizzare i difetti degli individui, non si ha uno sguardo rivolto alle cause modificabili, non se ne esce. Ecco perché dovrebbero essere studiati in modo più approfondito il tipo e la durata dei fenomeni personali e sociali che hanno generato i disturbi, poiché, quanto più a lungo dureranno quei fenomeni e quanto più interconnessi saranno, tanto più i loro effetti rischiano di diventare difetti dei singoli.

La Tabella 2 mostra altresì che la convivenza forzata non solo non ha messo a repentaglio l’unione famigliare, ma l’ha rinforzata. Meno del 4% degli italiani, infatti, sostiene che la convivenza forzata ha generato problemi duraturi, minando l’esistenza stessa della famiglia, contro un 33% che dichiara che l’unione ne è uscita rafforzata. Solo in quelle (poche) famiglie sconvolte dalla pandemia si è acutizzata la depressione.

È difficile dire se sia nato prima l’uovo o la gallina, vale a dire se l’aggravarsi della depressione sia la causa dei problemi sociali a cui è associata o se siano le cause esterne ad avere causato le difficoltà psichiche. Probabilmente, durante la lunga durata della pandemia, le cause e gli effetti si sono riverberati le une sugli altri. Il problema è di non poco conto se vogliamo capire come ne possiamo uscire.

Immaginiamo un futuro in cui il virus si aggregherà ai numerosi altri virus che, di solito, si chiamano influenza stagionale. Quindi, immaginiamo che il Coronavirus ci dia ancora fastidio, ma non più degli altri virus che, per decenni prima della pandemia, in Italia, provocavano 18-20mila morti l’anno (e che, verosimilmente, nelle statistiche quotidianamente somministrate, già troviamo fuse in quelle della mortalità da Covid, ma questo è un altro discorso).

Abbiamo già visto che i soli problemi di salute non sono sufficienti a spiegare l’ampiezza del disagio mentale. Gli stessi confinamenti in casa non sono stati poi così deleteri come poteva sembrare. Quindi, se ci lasciamo alle spalle sia l’uno che gli altri, la situazione non dovrebbe cambiare granché. Riprenderemo le migliori abitudini, interagiremo di più con parenti e amici, faremo poca o nulla didattica a distanza e il lavoro da remoto solo se lo vogliamo, rifaremo le code in banca, in posta, agli sportelli del comune, riprenderemo a spendere rimettendo in moto l’economia che è sull’orlo del tracollo, forse faremo più figli di prima della pandemia, e così via. Allora, se tutto torna quasi come prima, la depressione e le ansie gradatamente diminuiranno o resteranno un serio impedimento alla ripresa? Saremo resilienti quanto basta per ripartire?

Se il futuro sarà come il passato recente, i disturbi dovrebbero evaporare come neve al sole: abbiamo già visto che sono stati meno frequenti quando il virus ha allentato la presa. Tuttavia, questa pandemia non è stata una crisi come le precedenti. Tutto sommato, il terrorismo è stato sconfitto sul campo, la crisi economico-finanziaria del 2008-2012 è stata superata migliorando i meccanismi prima difettosi, ma il virus non è stato sconfitto. I vaccini hanno fatto la loro parte nel ridurne i possibili danni, ma non hanno ucciso il virus. Se non si tira da parte, non sapremmo cosa fare. Basta parlare con la gente per capire che molti temono, nel profondo, che una nuova variante generata chissà dove (ricordiamo che lo stesso virus circola da decenni, quello di Wuhan è nato per un disguido di laboratorio) possa riemergere e la triste storia ricomincerebbe.

Per questo, speriamo che i governi si impegnino non solo a lenire i sintomi del malessere sociale, dei quali la depressione è uno, ma vadano alla radice del male, cioè creino strumenti e possibilità affinché la gente possa districarsi nell’organizzare il proprio futuro. Il male oscuro si prende per inazione e inalando pessimismo. La creazione di futuro sarà la più efficace terapia contro l’espandersi della depressione.

Ciò non significa che non vada curata la malattia. Ci mancherebbe, chi sta male deve essere curato. Però va chiusa la valvola che provoca la fuoruscita del male oscuro. È importante che la politica sancisca quanto prima – e annunci convinta – la fine della pandemia. La gente deve sapere che non ha più la scimmia sulle spalle. Dal punto di vista informativo, vanno poi promosse indagini che evidenzino non solo la situazione incombente sull’individuo, ma le sue prospettive di uscire dall’oppressione che avverte.

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