Era il novembre del 1964, e con il primo album inciso dal vivo nella storia della canzone italiana si completava la parabola di consacrazione di Enzo Jannacci. Una consacrazione culturale, da “unico esponente del neorealismo nella canzone d’autore” (definizione di Zavattini), “artista del calibro di Charlie Chaplin” (come disse il regista Filippo Crivelli), “poeta di poesia schietta, sostenuta da amore per la povera gente” (dalle note di copertina del primo disco del Dottore, firmate da Luciano Bianciardi). 



Ma per capire bene la portata del fenomeno Jannacci, che portò anche Milano sulla ribalta della nascente musica cantautorale, bisogna fare un paio di passi indietro. E ricordarsi anzitutto dei primi tentativi artistici di quel ragazzo timido e stralunato che, mentre tentava la carriera delle sette note, studiava pure da medico: erano stati tentativi nel jazz, poi nel rock, indi nel demenziale de I Due Corsari con l’amico fraterno Giorgio Gaber, infine nel solco di una più tradizionale proposta d’autore; sempre che possano essere definite tradizionali faccende tipo “L’ombrello di mio fratello”, denuncia dell’arroganza finita proprio nel film tratto da “La vita agra” di Bianciardi, o “Il cane con i capelli” che valse a Jannacci, in un provino Rai, la qualifica di “inidoneo al mestiere d’artista”. Malgrado si trattasse di una delle prime denunce tout-court dell’emarginazione mai scritte e cantate in Italia. Comunque sia, tutto questo, dal jazz al cane capelluto, non aveva portato a nulla. Aveva portato invece a molto, anzi potremmo scrivere che abbia portato in toto alla nascita dell’artista Jannacci come l’abbiamo conosciuto, l’idea del già citato Crivelli di mettere in piedi, con Roberto Leydi, uno spettacolo teatral-musicale per raccontare Milano nei primi cento anni dell’Unità d’Italia. La faccenda, prevista al debutto a fine 1962, dopo il provino Rai che in pratica chiuse a Jannacci pure le porte della Dischi Ricordi, si sarebbe dovuta intitolare “Milanin Milanon”, e avrebbe dovuto parteciparvi, esponente della contemporaneità, proprio Gaber.



Solo che costui era già diretto alle balere del suo primo, commerciale, periodo artistico. E così Crivelli e Leydi si ritrovarono a provinare tale Jannacci Vincenzo, su consiglio peraltro di Gaber stesso. E Jannacci Vincenzo approdò al loro cospetto lanciando “l’urlo del coyote”, poi fissato su disco quale introduzione di “Andava a Rogoredo”. Tale urlo fece capire ai due uomini di cultura tre cose: avrebbero sostituito Gaber con qualcosa di assai meglio, un artista più originale e coraggioso; esisteva una canzone contemporanea e d’autore anche a Milano; avevano scoperto un talento. 



Così che “Milanin Milanon” lanciò a Milano, fra il Teatro Gerolamo e la Villa Comunale di via Palestro, il fenomeno culturale Enzo Jannacci: subito riconosciuto dagli intellettuali e immediatamente cantato dalla gente. Con il lancio, su palco, di “El portava i scarp del tennis”, “Per un basin”, “L’Armando”, “M’hann ciamaa”, “La forza dell’amore”, “L’artista”, “La luna è una lampadina”, “T’ho compraa i calzett de seda” e la già ricordata “Andava a Rogoredo”. E grazie a “Milanin Milanon” Nanni Ricordi, mentore anche di Paoli, Endrigo e molti altri cantautori storici, riuscì a far rientrare dalla finestra quanto era uscito dalla porta dell’arte italiana: ovvero lo Jannacci pre-teatro, ormai come detto scartato dalla stessa Dischi Ricordi e alfine da Nanni, stante i successi meneghini, fatto scritturare al compianto Ezio Leoni, scopritore di Tony Dallara e Adriano Celentano presso la piccola etichetta Jolly. Perché fu la Jolly, ed eccoci nel 1964, due anni dopo “Milanin Milanon”, a pubblicare finalmente pure su disco il fenomeno culturale succitato, lo Jannacci “vero”, quello che in milanese, con gli occhiali spessi e la chitarra attaccata al collo aveva ammaliato, oltre che Bianciardi e Zavattini, pure Umberto Eco. Prima Leoni gli pubblicò il 45 “El portava i scarp del tennis” (a marzo); poi l’altro singolo “T’ho compraa i calzett de seda” (a maggio); poi un terzo 45, “L’Armando” (a giugno). 

Fino ad arrivare all’Lp “La Milano di Enzo Jannacci”, e siamo a luglio ’64, e appunto al disco live che ha aperto, in Italia, la storia della musica dal vivo testimoniata nei dischi. “Enzo Jannacci in teatro” completò la diffusione editoriale di quanto sino a quel momento Jannacci aveva proposto solo dal vivo, e nacque dallo spettacolo che aveva seguito “Milanin Milanon” su idea di Dario Fo: altra icona culturale che aveva visto nel futuro Dottore grandezze d’artista. 

“Perché Enzo, quando lo conobbi, aveva già tutto, non c’era niente da insegnargli. E a quel punto gli mancava solo la consacrazione”, ci ha raccontato il Nobel. Quindi? “Quindi bisognava scrivergli uno spettacolo tutto suo. E lo facemmo: si intitolò ’22 canzoni’, conteneva anche parti teatrali e lo misi in scena con la mia regia”. “22 canzoni” ebbe così tanto successo che Jannacci fu il primo cantante a tenere banco per oltre un mese in un’unica città, la sua Milano, fra Gerolamo e (stanti le richieste) il ben più grande Teatro Odeon, per poi andare pure con quello stesso spettacolo in tournée. E in “22 canzoni” Jannacci cantava appunto ventidue canzoni – ma guarda: però meglio scriverlo, ché non siamo più tanto abituati, oggi, a diciture oneste nello show business… – fra le quali figurava pure “La mia morosa la va alla fonte”: una canzone che veniva spacciata per composizione del XV secolo, mentre era di Jannacci stesso; e comunque sia, merita una citazione giacché a Genova venne ascoltata da un giovane e attento Fabrizio De André e da questi poco dopo pubblicata. Però attribuendosi la composizione, con testo diverso e titolo che forse qualcuno ricorda: ovvero “Via del Campo”. 

Ma questa è un’altra storia, peraltro ricomposta dai due artisti molto serenamente quasi subito, a livello di Siae, anche se per anni molti non l’hanno saputo, l’autore vero della musica di “Via del Campo”. Delle “22 canzoni” dello spettacolo del ’64 ne finirono su Lp comunque altre 12, non “La mia morosa la va alla fonte” (che Jannacci incise poi nel 1968 in “Vengo anch’io. No, tu no”) e neppure, ovvio, quelle già edite nell’album estivo: compresa dunque “El portava i scarp del tennis”. Sull’Lp uscirono invece “L’Armando” di cui sopra, che grazie al 45 giri (non dal vivo) era già una sorta di hit ante litteram, e la summa di un repertorio poliedrico: col quale quello storico disco definì la portata dello Jannacci milanese (“Ohé sunt chi”) come di quello attento ai nuovi linguaggi (“Qualcosa da aspettare” veniva dai Cantacronache di Fausto Amodei); del cabarettista (“Un foruncolo”, già incisa da Fo, col futuro Dottore divenne qualcosa di inarrivabile) come del poeta. Perché “Sfiorisci bel fiore”, dedicata alla futura moglie Giuliana, era e sempre rimarrà capolavoro di delicatezza e acume, ripreso nel tempo anche da Bertoli e De Gregori. 

Poi “Enzo Jannacci in teatro”, soprattutto, consacrò il coraggio di uno come Jannacci: che di coraggio sempre sarebbe vissuto e che il coraggio sin troppo spesso avrebbe pagato. Perché se già “Sfiorisci bel fiore” parlava di razzismo e miniere, e difatti finì su singolo nel ’65 con strofa relativa censurata, non bisogna sottovalutare quanto pesasse, negli anni Sessanta, mettere in scena e su disco faccende tipo “Prete Liprando” (denuncia di decadenza morale nella chiesa, gridata dall’interno della chiesa stessa) o “Il primo furto non si scorda mai”, canzone antifascista che nel tempo divenne antisocialista – nel periodo dello Jannacci sanremese post-Tangentopoli – e costò al buon Enzo anche fughe precipitose con la celere quando gli capitò di eseguirla, ignaro di dove si trovasse, in un circolo neofascista di Arezzo. Si potrebbe poi, e sicuramente meritano un appunto, scrivere di “Veronica”, il celebre “primo amore di tutta via Canonica” composto col radiocronista Sandro Ciotti, o di quell’“Aveva un taxi nero” che narra di un tassista buono, Abele, suo fratello cattivo, Caino, e delle disavventure dei due su un taxi ridotto a triciclo mentre la madre (ovviamente si chiamava Eva…) “piange nella camera”. 

Già: si potrebbe scrivere molto, della verve al contempo di satira sociale e puro divertissement di uno Jannacci capace sin da subito anche di mettere molto di proprio nell’opera del maestro Fo: perché “Aveva un taxi nero” cantata da lui è molto diversa dall’originale (scritto nel ’54 per “Sani da legare” e oggi per lo più ignoto), e vi assicuriamo che le trovate comiche migliori sono tutte aggiunte “made in Jannacci”. Ma forse il centro di questo album storico, suonato a metà fra il teatro, il cabaret e il jazz, è “Prete Liprando”. Perché, come disse un giorno Jannacci, è un brano provocatoriamente dedicato “a chi viene a conoscenza di fatti decisivi per la civiltà e i rapporti umani e, a differenza di Liprando che rischia la vita per denunciarli, non ne viene minimamente toccato”. 

Ma a farla breve: il fenomeno culturale nato a teatro nel ’62 è a fine ’64, ormai, artista a tutto tondo: e il primo live italiano lo consacra anche come una delle voci più oneste e coraggiose di tutta la storia del nostro cantautorato. Il problema, per Jannacci, è stato che tutto ciò abbia sempre avuto un prezzo molto alto (fra censure e riduzione a “clown” anche post mortem); la fortuna, per noi, è stata che Jannacci malgrado tutto abbia continuato a essere se stesso pagandolo sino all’ultimo giorno, il prezzo di una grandezza umana, artistica ed etica che oggi ci manca. Oh, se ci manca.

 

Enzo Jannacci in teatro (dal vivo, Jolly 1964)

Ohé sunt chi / Qualcosa da aspettare / Sopra i vetri / Aveva un taxi nero / Un foruncolo / La forza dell’amore / Veronica / Prete Liprando e il giudizio di Dio / Il primo furto non si scorda mai / Sfiorisci bel fiore / Niente / L’Armando