Giovedì prossimo si riunisce la Banca centrale europea e bisogna attendersi un altro aumento dello 0,5% che porterà i tassi di deposito al 2,5%. Sembra un paradosso, ma le migliori prospettive che inducono a escludere una vera e propria recessione hanno dato fiato ai “falchi”.
Tra le “colombe” si sono collocati apertamente il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e l’esponente italiano nel Comitato esecutivo, Fabio Panetta.
Giovedì molto probabilmente voteranno a favore, ma un ulteriore rialzo dei tassi dopo febbraio li troverebbe all’opposizione. Allo stato attuale, con l’Italia ci sono il governatore greco Yannis Stournaras, quello del Portogallo Mário José Gomes de Freitas Centeno, e i colleghi di Cipro e Malta. La schiera opposta è guidata dalla Bundesbank presieduta da Joachim Nagel sostenuto da Isabel Schnabel, membro dell’esecutivo e dal capo della Banca centrale olandese Klaas Knot che proprio tre giorni fa ha dato il via libera ad altri due aumenti dei tassi. Con loro anche i finlandesi, mentre il vicepresidente della Bce, lo spagnolo Luis de Guindos, non dice no, ma “adelante con juicio”.
Decisivi a questo punto sono due Paesi che si muovono in coppia anche se i loro interessi di fondo non coincidono, cioè la Francia e la Spagna. Ebbene, il Governatore francese Villeroy de Galhau, lo spagnolo Pablo Hernandez de Cos, così come il capo economista Philip Lane, si sono avvicinati alla posizione di Christine Lagarde, la quale ribadisce: “Manterremo la rotta” perché i tassi devono “salire significativamente”.
La paura dell’inflazione fa novanta, ancor più ora che sembra allontanarsi lo spettro di una recessione. Ma come rispondere all’obiezione che con una stretta eccessiva il rallentamento della crescita europea può diventare una vera e propria caduta? La dinamica dei prezzi sta rallentando in risposta alla riduzione dei costi dell’energia e delle materie prime, mentre in Europa non si vede nessuna rincorsa salariale. C’è il pericolo, invece, di innescare aspettative negative sui mercati finanziari tali da riaccendere una nuova guerra degli spread che colpirebbe in prima istanza i Paesi più indebitati come l’Italia e la Grecia, per diffondersi poi nell’Eurolandia con una vera reazione a catena, come accadde nel 2011.
“Preoccupa il debito non lo spread”, ha risposto Knot, per il quale il bastone monetario spinge i Governi a tagliare le spese e aumentare le tasse, mentre Madame Lagarde ripete la sua discutibile tesi: “Non siamo qui per combattere lo spread”. Entrambi trascurano il fatto, sottolineato più volte da Visco, che l’aumento dei divari interni frantuma il mercato e minaccia l’euro. È la convinzione che nel 2012 ha indotto Mario Draghi a compiere la svolta salvifica. Lagarde, Nagel, Knot vogliono gettare dalla finestra i risultati ottenuti per avviare una vera e propria restaurazione monetaria? Si tratta in questo caso di una operazione ideologica e politica, non economica.
È vero che la Bce ha come obiettivo un’inflazione al 2%, un tetto discutibile visto il cambiamento profondo dell’economia mondiale rispetto a quando è stato fissato, ma in ogni caso il problema è in quanto tempo si intende raggiungere questa meta. Molti economisti di chiara fama sostengono che le condizioni che hanno consentito vent’anni di bassa inflazione non torneranno più, a cominciare dalla piena apertura dei commerci e dal libero scambio (i due pilastri della globalizzazione), quindi sarebbe realistico puntare al 3-4% annuo. Ne ha discusso il Fondo monetario internazionale proprio quando era guidato dalla Lagarde, la quale sembra essersene dimenticata. In ogni caso, puntare a una disinflazione accelerata attraverso la stretta monetaria per raggiungere una meta irrealistica non ha nulla di razionale.
L’Italia “è in grado” di reggere i rialzi dei tassi usando la prudenza che ha caratterizzato la Legge di bilancio: “Mantenere conti pubblici in ordine e, quindi, disavanzi ridotti e decrescenti nel tempo è cruciale”, ha detto Visco. Ma aggiunge: “Stiamo dando messaggi troppo duri e spaventiamo anziché accompagnare”, e “non sono convinto che sia oggi meglio rischiare di restringere troppo anziché troppo poco”. Se la stretta della Bce fosse eccessiva, la possibilità di una “reazione di famiglie, imprese e operatori di mercato eccessiva, con rischi per la stabilità finanziaria, l’attività economica” e anche l’inflazione nel medio termine.
E non sono in ballo solo i tassi d’interesse, c’è il piano ridurre il programma di acquisto di attività da 15 miliardi di euro al mese (App) a partire da marzo. Il Quantitative tightening sommato a un rialzo che porti un picco del tasso sui depositi al 3,25%, come prevede Bloomberg, rende pesante il giro di vite e mette in difficoltà l’Italia che quest’anno deve collocare titoli di stato per altri 320 miliardi di euro.
Insomma, si sta scherzando con il fuoco. L’agenzia di rating Standard & Poor’s prevede “una recessione lieve e di breve durata” per l’Italia e l’Eurozona nel 2023 che scongiura il rischio di assistere a un remake della crisi del debito sovrano del 2011. I rendimenti dei Btp saliranno sì sopra il 5% nel 2024, ma lo spread con il Bund non supererà i 200 punti base, puntellato da un sistema bancario in salute e da un sistema produttivo nazionale più competitivo. Ma anche protetto dalla Bce e sostenuto dai fondi europei. Questa seconda condizione non è più garantita a priori.
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