L’ultimo film di Jia Zhang-ke, I figli del fiume giallo, si presenta come un gangster movie unito a una storia d’amore, ma è soprattutto un ritratto della Cina negli ultimi vent’anni, con le città dagli edifici grigi e anonimi, lo sviluppo economico e le mille contraddizioni di un Paese in via di trasformazione. La trama si concentra attorno al rapporto tra la giovane Qiao (Zhao Tao) e il suo fidanzato Bin (Liao Fan), un piccolo boss che gestisce una bisca.



Il tradizionale mondo comunista della Cina si sta sgretolando sotto i colpi della musica americana, delle danze occidentali, di uno stile di vita che si accompagna a un nuovo benessere e di un rapido sviluppo industriale. Bin cerca ancora di difendere i vecchi valori di fratellanza e onore, ma la sua voce è sempre più isolata. Qiao, aperta alla trasformazione in atto, vede molto più lontano. Ed è lei a difendere l’uomo che ama da un’aggressione in strada, finendo in prigione per lui. Per cinque anni, dal 2001 al 2006, la donna resta in carcere, senza smettere di amare Bin. Di nuovo libera, lo va a cercare, ma, tristemente, scopre che tutto è cambiato in fretta. Il paesaggio delle Tre Gole non è più lo stesso, le città si sono espanse, le regole sono mutate e non c’è più spazio per chi non si adatta.



Con la determinazione e la pazienza di un’innamorata, Qiao riporta a sé Bin e prova a ricostruire quello che avevano un tempo. La società, però, li respinge, li isola, costringendoli ad accontentarsi di un angolo da cui guardare un mondo che, ormai, non può più tornare come un tempo.

Il film di Jia Zhang-ke si concentra sulla rappresentazione attenta del cambiamento sociale e sugli effetti che può avere sugli individui, sulle loro reazioni e le loro sconfitte. Emerge un senso di rabbia, di frustrazione dei personaggi di fronte a una realtà che cancella i loro sogni e li costringe a diventare degli emarginati, degli outsider che non sono riusciti a salire sul carro del vincitore. A dominare è dunque un tono intimo, riflessivo, che permea soprattutto la prima parte della storia. Le atmosfere e le scene iniziali contrastano radicalmente con quelle a cui assistiamo dopo il rilascio di Qiao e le sue peregrinazioni alla ricerca di Bin e, forse, di un passato ormai svanito, di valori in cui credeva e che non vuole abbandonare.



Tornare indietro, però, è impossibile, sia per una donna, sia per una nazione. E l’immagine del treno che attraversa lo Xinjiang diventa il simbolo di quella trasformazione a senso unico, con tutte le conseguenze che abbiamo davanti agli occhi.

Come in un gioco di scatole cinesi, I figli del fiume giallo contiene molti altri film e innumerevoli riferimenti alle opere precedenti del regista, creando un filo conduttore tra diverse storie che, insieme, tracciano un quadro della Cina in un periodo cruciale della sua lunga storia. Lo spettatore osserva la realtà attraverso gli occhi di Qiao, una donna che sorprende e commuove per la sua capacità di amare nonostante tutto, per il disperato tentativo di provare a comprendere, di ritagliarsi un posto, di difendere la persona che ama anche quando è caduta a picco.

Il senso di disillusione si accompagna alla domanda sulla direzione in cui stanno andando la società cinese e, in generale, il mondo moderno, che chiede di buttare via e sostituire, di adattarsi alle nuove regole oppure soccombere.