Nell’articolo precedente avevo parlato di come nella penultima puntata di Supernatural i due protagonisti, i fratelli Winchester, riescano a sconfiggere addirittura Dio. Un Dio visto come tirannico, capriccioso e infantile, come lo concepisce la modernità, che si presenta come lo scrittore Chuck Shurley e non è davvero onnipotente, ma sarebbe comunque troppo forte per loro. E infatti i due vincono solo grazie all’aiuto determinante del nephilim Jack, che ha già dei poteri quasi divini e assorbe quelli di Chuck, riducendolo a semplice essere umano e diventando Dio al suo posto. Come avevo anticipato, però, non è questo il vero finale della serie.
Jack, infatti, potrebbe sistemare tutto con un solo gesto, come loro gli chiedono: eppure, sceglie di non farlo e di andarsene. Così nell’ultima puntata noi vediamo Sam e Dean che ritornano alla loro vita di sempre, dove apparentemente nulla è cambiato. Anzi, sembra addirittura che nulla sia accaduto: non solo nessuno li ringrazia per aver salvato il mondo, ma nessuno si è nemmeno accorto che il mondo sia stato salvato. Peggio ancora, Jack non gli ha nemmeno restituito la madre (uccisa involontariamente proprio da lui quando non sapeva ancora dominare i propri poteri), né l’amico angelo Castiel, sacrificatosi per salvare Dean dalla dea della Morte.
Sembrano quasi tornati all’inizio della serie, «sempre io e te, ovunque ci condurrà la vita: solo noi» (Sam), a fare di nuovo gli ammazza-mostri di professione, il che, senza più apocalissi incombenti da sventare, è tornato a essere un lavoro come un altro, in fondo non molto diverso da quello della loro falsa identità di agenti dell’FBI a caccia di serial killer. Eppure, in realtà, tutto è già cambiato, perché ora sanno di essere «finalmente liberi» (Dean). E se è vero che a prima vista questa libertà sembra essere intesa nel senso moderno, come “libertà da” ogni vincolo e, in particolare, dai vincoli posti da Dio, in realtà non è così, anche se ci vuole del tempo per accorgersene.
Ciò si vede chiaramente quando Dean viene ferito a morte in uno scontro con un gruppo di vampiri e per la prima volta accetta la morte (per giunta una morte così banale, per uno come lui che era sopravvissuto a ben altro), chiedendo a Sam: «Non riportarmi più indietro» (tutti i protagonisti di Supernatural sono infatti tornati dall’aldilà almeno una volta o anche più).
E Sam a sua volta accetta l’idea, fin lì inimmaginabile, di andare avanti con la propria vita senza il fratello (Carry on è infatti il titolo dell’ultima puntata). Una vita ormai quasi normale, in cui, pur proseguendo il suo onesto “lavoro” di ammazza-mostri, trova anche il tempo di sposarsi e di avere un figlio (che ovviamente chiama Dean) e infine muore serenamente, raggiungendo il fratello, i genitori e tutti gli amici in Paradiso.
Un Paradiso, però, che nel frattempo è stato profondamente cambiato da Jack, che non compare più, ma la cui presenza si avverte dappertutto. Niente più asettiche stanze bianche in cui ognuno viveva immerso nei suoi ricordi più felici, ma in fondo in una realtà illusoria e senza comunicare realmente con gli altri. Al suo posto c’è invece, per usare le parole di una straordinaria canzone di Guccini (Gli amici), un luogo «in tutto somigliante al solito locale / ma il bere non si paga e non fa male» (letteralmente, perché la prima cosa che accade a Dean quando vi giunge è vedersi offrire una birra).
Ora, evidentemente nel passaggio da Chuck a Jack gli autori hanno rappresentato il passaggio dal “Dio-come-ce-lo-hanno-sempre-raccontato” (che, altrettanto evidentemente, secondo loro è il Dio ebraico-cristiano) al “Dio-come-dovrebbe-essere” (sempre secondo loro, ovviamente). Ma la cosa straordinaria è che, nonostante le loro intenzioni, in realtà è proprio Jack che rappresenta il vero Dio cristiano, di cui Chuck è piuttosto la versione caricaturale prodotta dalla modernità. In particolare, colpisce l’esperienza che fanno i Winchester nei giorni e negli anni seguenti, che è molto simile a quella degli Apostoli dopo l’Ascensione.
All’inizio i Winchester si aspettano che Jack resti con loro, visto che «adesso è il Grande Capo e può fare tutto quello che vuole» (Dean), proprio come gli Apostoli avevano chiesto a Gesù se ora, finalmente si sarebbe deciso a restaurare il Regno di Israele. Ma Jack non vuole comandare: «Io non deciderò per nessuno», dice, «e non torno al rifugio con voi: in un certo senso, ci sono già». E quando Dean gli chiede: «Dove?», lui risponde: «Ovunque!».
È vero che quando spiega ai Winchester la sua decisione di andarsene Jack dice che «Chuck si è inserito nella storia: è stato questo il suo errore», affermazione che, presa alla lettera, sta agli antipodi del cristianesimo. Ma se guardiamo alla vicenda nel suo insieme ci accorgiamo subito che la sua logica profonda è ben diversa.
In realtà, infatti, anche Jack (che prima di diventare Dio e di “ascendere al cielo” deve anche lui morire e risorgere come Cristo) si è “inserito nella storia” (e quanto!) e continuerà a farlo anche dopo: quello che realmente non vuol fare è manipolarla, che è una cosa ben diversa. E quando dice che dice che gli uomini non hanno bisogno di lui perché «troveranno le risposte in loro» e che non c’è bisogno che lo preghino o si sacrifichino per lui, subito dopo aggiunge: «Devono soltanto sapere che sono già parte di loro e fidarsi».
Ora, anche Cristo avrebbe potuto “mettere tutto a posto” con una sola parola e invece (apparentemente) non l’ha fatto. Anche Cristo (apparentemente) se n’è andato, lasciando gli Apostoli “liberi” di tornare alla loro solita vita, in cui (apparentemente) nulla era cambiato. E anche loro ci hanno messo del tempo per accorgersi che invece tutto era già cambiato. Quando però l’hanno finalmente capito, hanno anche capito che il vero cambiamento non era nelle circostanze, ma in loro. E questo non grazie a un loro sforzo, ma perché con l’Ascensione Cristo non se n’era andato davvero dalla realtà materiale, ma ne aveva anzi preso definitivamente possesso, insediandosi nel punto più profondo dell’Essere, per cui “era già parte di loro”.
Di conseguenza, anche la “riunione di famiglia” che chiude Supernatural assume un significato profondamente diverso da quelle che hanno chiuso altre serie (vedi prima puntata): perché non è affatto un finale, ma un inizio – anzi, il vero inizio. Del resto, non è certo un caso che anche la “serie” più famosa del mondo, cioè la vera storia della salvezza, finisca con un’analoga “riunione di famiglia”: la grigliata preparata da Gesù per gli Apostoli sulla riva del Lago di Tiberiade, che chiude l’ultimo dei Vangeli, quello di Giovanni, ed è al tempo stesso l’inizio del mondo nuovo e definitivo.
Tuttavia, se è vero che questi temi in Supernatural sono entrati esplicitamente solo nell’ultima stagione, è altrettanto vero che ciò è potuto accadere senza stravolgerlo, anzi, completandolo, solo perché il sentimento profondo della vita che in esso era rappresentato era questo fin dal principio. Come viene detto nel documentario finale The long road home, infatti, «Supernatural è uno strano amalgama di due cose: la dinamica famigliare e la mitologia più epica che gli umani possano escogitare». Perché dopo ogni apocalisse i Winchester «torneranno sempre insieme: il loro amore reciproco è così forte che niente può separarli. Questo è il cuore e l’anima della serie e il motivo per cui siamo durati così a lungo».
Forse, quindi, è più giusto dire che il finale di Supernatural ci aiuta a guardare con occhi diversi anche alle altre serie che esprimono un sentimento analogo. Perché in questo volersi ritrovare tutti insieme con il loro pubblico da parte degli attori (nonché dei personaggi, che hanno anch’essi una loro forma di esistenza, misteriosamente ma realmente indipendente da quella di chi li ha creati e rappresentati), sia che venga esplicitamente rappresentato nella “riunione” finale, sia che resti solamente implicito, c’è in fondo lo stesso desiderio di dire: «La nostra storia è finita, ma la nostra amicizia rimane, per sempre».
L’emergere di questo desiderio è sicuramente favorito dalla lunga durata, ma questa è a sua volta conseguenza del gradimento da parte del pubblico e quindi, ultimamente, dipende sempre dal fatto che il sentimento dell’umano che viene proposto nella serie risuoni anche nell’animo di chi la guarda. E non importa che autori, attori e personaggi ne siano consapevoli, perché questo è “il” desiderio costitutivo del cuore umano, dato che è la stessa cosa che ciascuno di noi desidera poter dire quando finisce la sua storia personale o quella di qualcuno che ama.
Ed è un desiderio che può trovare compimento solo nel “vero” cristianesimo.
Per questo, chiunque sappia dare voce alla voce del cuore, come ogni vero artista, non può che ritrovarsi a rappresentare – che lo sappia o meno, in una forma o nell’altra – una dinamica la cui struttura di fondo è oggettivamente cristiana o in cui almeno risuona la nostalgia del cristianesimo, perfino quando nelle sue intenzioni voleva essere l’esatto opposto.
Che ciò sia accaduto frequentemente negli ultimi anni proprio in una delle espressioni più caratteristiche della società moderna, la televisione, spesso accusata (e spesso a ragione) di diffondere un sentimento della vita diametralmente opposto, è certamente una buona notizia. La speranza è che lo stesso accada anche nelle nuove serie che ci terranno compagnia nei prossimi anni.
(3- fine)
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