Se è vero, come purtroppo è vero, che la situazione nella quale ci troviamo in Italia – a prescindere dal giudizio che ciascuno vorrà darne – è innanzitutto frutto della somma delle scostumatezze individuali (alle quali ci siamo ormai assuefatti) dobbiamo ammettere che ci troviamo di fronte a un problema con difficile soluzione.
La soluzione del problema è difficile perché mentre ricerchiamo in nuovi assetti istituzionali, spesso improvvisati e improbabili, la risposta alla cronica inefficienza della nostra macchina pubblica, non ci accorgiamo che il principale vulnus è dentro di noi. Lo Stato siamo noi e non ce ne accorgiamo o facciamo finta che non sia così.
Lo spunto per ricordarcene – in un momento così cruciale per la nostra vita nazionale: nel bel mezzo della recrudescenza della pandemia, alla vigilia della presentazione della Legge di bilancio, impegnati a capire su quali basi poggiare i progetti del Recovery Plan – ce la fornisce il primo anniversario di Ethos.
Fortemente voluto dal filosofo Sebastiano Maffettone, Ethos si sostanzia in un osservatorio nato in seno alla Business School della Luiss per promuovere studi sull’etica pubblica e monitorare le diverse e attinenti manifestazioni dell’agire organizzato e collettivo al fine di verificarne il grado di adesione al principio generale.
Un esercizio utile e necessario soprattutto per le nuove generazioni che imparano così a usare la cartina al tornasole di princìpi fondamentali per valutare la bontà intrinseca di comportamenti e decisioni che hanno influenza sulla vita di tutti i giorni e sulla costruzione di un futuro che si avvicina in modo accelerato.
Questo particolare filtro per giudicare quello che facciamo e come lo facciamo, il filtro dell’etica, si adatta a tutte le circostanze della vita pubblica e, come la morale privata, funziona in modo trasversale diventando una qualità intrinseca di ogni scelta e di ogni azione. Una caratteristica fondamentale del nostro sistema operativo.
Senonché l’esperienza c’insegna che sempre più s’ingrossa il mare che separa il dire e il fare. E quanto più predichiamo perché le cose cambino in meglio e gli uomini (e le donne) siano all’altezza delle situazioni che devono fronteggiare, tanto più ci accorgiamo che la realtà offre uno spettacolo diverso, non sempre edificante.
La verità è che l’etica pubblica non può essere scissa dalla morale privata perché sono gli uomini e sempre gli uomini a formare e classificare le istituzioni. E anche quando queste cominciano a vivere di vita propria (il che vale anche per le aziende) sono ancora gli uomini che ne fanno parte a condizionarne il funzionamento.
Uno sguardo alla cronaca ci mostra lo spettacolo di un Paese nel quale ciascun soggetto tende a prendersi tutte le libertà possibili non già per fare ciò che deve, ma per servire i propri interessi particolari in nome dell’interesse comune che viene così bistrattato. E poiché, si dice, così fan tutti è così che tutti tendono a fare.
Non ci si può meravigliare, allora, che le buone intenzioni regolarmente manifestate siano poi altrettanto regolarmente smentite quando si calano nella pratica. Si predica bene e si razzola male secondo un vecchio e sempre attuale adagio. La virtù si pretende per gli altri riservando a sé ampi margini di tolleranza.
È anche per questo che cala nel Paese la fiducia nel prossimo. Al di là delle belle parole il sentimento più diffuso è la diffidenza che genera l’ipocrisia, sua degna figlia. I nostri sorrisi sono taglienti. Le nostre promesse già pronte a essere vanificate. Il nostro impegno è diretto a studiare quale vantaggio trarre da ogni situazione.