Caro direttore,
le notizie sempre più tragiche dal fronte di Gaza cambiano di ora in ora, ma ho in fondo al cuore un timore, ovvero che Hamas usi anche armi occidentali contro Israele, comprate o fatte comprare tra quelle che circolano in Transnistria, regione autoproclamatasi indipendente dalla Moldova e che sta appena alle spalle dell’Ucraina e dove – verosimilmente – si commercia di tutto, essendo la regione in mano alle varie mafie delle armi che le vendono da decenni.



Spero di sbagliarmi, ma è strano che un buco nero come quello non abbia assorbito le “occasioni” commerciali fornite dal vicino conflitto, e da sempre il mercato medio-orientale è un ottimo cliente sia all’ingrosso che al dettaglio. Un altro dei tanti misteri che ha accompagnato l’offensiva di Hamas è capire la vera posizione dei suoi sponsor, a cominciare dai vertici iraniani, un altro potere che si basa sul terrore e la repressione ma che forse è meno solido di quanto si pensi.



Mentre il leader supremo Ali Khamenei e il suo regime hanno infatti festeggiato l’offensiva di Hamas – pur sottolineando di non essere loro a tirare le fila (sollevando, su questo, dubbi in tutti i Paesi) – gli iraniani hanno mostrato invece i loro timori su una escalation del conflitto e la loro vicinanza alle vittime israeliane e alle loro famiglie. Lo ribadiscono da giorni sui social ma anche dal vivo, allo stadio, con un coraggio raro come è appunto avvenuto due giorni fa durante una partita di calcio del Persepolis, squadra-leader di Teheran (6 titoli negli ultimi sette campionati) quando uno dei capi dei tifosi notoriamente vicino al governo – Abbas Geda – ha provato a sventolare la bandiera palestinese per celebrare l’attacco a Israele. Come mostrato dai video che hanno subito fatto il giro del mondo la gente non lo ha seguito, anzi, i tifosi dall’altra parte delle tribune hanno fatto partire cori contro Hamas, dimostrando che il popolo iraniano – o almeno una parte – non sostiene nessuna azione terroristica in nome della ideologia islamista, tantomeno se è guidata dalla teocrazia iraniana.



Un’altra posizione controversa, sfuggente e misteriosa è quella del Qatar, di cui si parla male ma con il quale si commercia di tutto, a parte la questione dei mondiali di calcio: vedremo se la mediazione per la liberazione di prigionieri proposta in queste ore avrà un seguito, ma è certo che questo Paese gioca su più fronti e ha solidi agganci anche tra i vertici di Gaza. Di fondo, però, tutti si chiedono come sia mai stato possibile che Israele si sia fatto cogliere indifeso e con i calzoni in mano, ma credo che una delle risposte più ovvie stia in un aspetto forse sottovalutato dalla percezione italiana, ovvero che Israele non è più lo Stato degli scorsi decenni.

Ha perso progressivamente la sua anima originaria, raccoglie ormai comunità ebraiche diverse tra loro e provenienti da tutto il mondo, i suoi giovani non si identificano più – come in passato – soprattutto con l’esercito e la necessità della difesa della patria. Lo stesso rave party organizzato a pochi chilometri dal confine e aggredito da Hamas dimostra come molti giovani israeliani siano profondamente diversi dai loro genitori, mentre lo Stato si è molto indebolito dalla lunga diatriba politico-costituzionale e giudiziaria legata a Bibi Netanyahu con le ricorrenti elezioni politiche e una frantumazione dei partiti che si radica profondamente anche nell’opinione pubblica.

Ci immaginiamo l’incredibile differenza che c’è tra le giovani prese in ostaggio e le loro coetanee delle famiglie ortodosse che con carrozzine scure e una barca di figli circolano per Gerusalemme? Non è facile per uno Stato rappresentare anime così contrapposte, che non solo spesso non hanno nulla di simile e contatti tra loro, ma che crescono non sopportandosi neppure a vicenda. Una nazione che si riscopre molto più debole di come pensava, soprattutto perché si illudeva di poter ricorrere alla tecnologia più che alle qualità umane per la difesa del territorio e la sua sicurezza e che vede frantumarsi in poche ore queste certezze. Israele sta per affrontare giorni di grande difficoltà, ogni tipo di rappresaglia comporta dei rischi, la questione ostaggi e le centinaia di giovani morti sono una terribile novità che lega le mani all’azione militare: sono scenari nuovi e inediti, uno più brutto dell’altro.

Comunque finirà, credo che questa offensiva di Hamas segnerà la fine politica di Netanyahu, che il conflitto sciita-sunnita rischia di incendiarsi ancora di più, che la crisi non dispiaccia a Putin distraendo l’Occidente dall’Ucraina. Cinquant’anni dopo la guerra del Kippur va nuovamente in scena quello che sembrava impossibile, eppure è successo. In Medio Oriente siamo – ancora una volta – prigionieri di estremisti religiosi che alimentano un profondo, radicato odio reciproco. Siamo ancora una volta all’anno zero e dopo troppe guerre, morti e distruzioni è solo questa l’amara realtà, con il consueto imbarazzo occidentale dell’affermare solidarietà ad Israele ma senza sapere bene cosa concretamente fare, anche perché – sotto sotto – la solidarietà spesso è purtroppo solo di facciata.

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