Il riepilogo sull’andamento economico del secondo trimestre 2021 diffuso in settimana dall’Istat ha confermato le indicazioni che da qualche mese arrivano da Bankitalia e dagli organismi internazionali. Al di là di questo +17,3% rispetto al secondo semestre 2020 – che si riferisce a un periodo di lockdown totale e di fermo delle attività produttive salvo quelle essenziali – il +2,7% di aprile-giugno 2021 su gennaio-marzo è il numero che ci interessa e che conferma le previsioni anche in ragione d’anno (+6%). Lo stesso Mario Draghi, poco più di un mese fa, si è espresso parlando di “stime che saranno riviste significativamente al rialzo”.
Il trend positivo dell’economia è in gran parte legato alla crescita del consumo (+3,4%). È questa una buona notizia, perché è certamente la domanda interna che, più di ogni altro fattore, concorre a determinare la stimata e auspicata crescita del Pil. Prima ancora che di effetto Draghi, qui c’è dunque un sistema che ha saputo reagire all’emergenza pandemica, che è anche economica naturalmente: consideriamo che la nostra manifattura è quasi tornata ai livelli pre-Covid del 2019, mentre i nostri cugini tedeschi e francesi, rispetto allo stesso periodo, sono sotto di circa 5 punti percentuali. Una capacità di resilienza precede dunque i benefici che sicuramente avremo col Pnrr.
Sono naturalmente indicazioni che ci autorizzano a guardare con speranza al futuro, sebbene proprio le ultime rilevazioni Istat sulla fiducia, rese note circa una settimana fa, segnino una leggera contrazione: è infatti in calo l’indice che riguarda i consumatori (da 116,6 a 116,2) sia quello che riguarda le imprese (da 115,9 a 114,2). Perché si registrano questi rallentamenti nel clima di fiducia di imprese e consumatori?
Premesso che si tratta di lievi ritrazioni – che interrompono però una crescita che durava da otto mesi tra le aziende e da quattro tra le famiglie – per quanto riguarda queste ultime potrebbe trattarsi del timore di una nuova ondata pandemica a generare ripensamenti. Per quanto concerne invece le imprese, vi sono fattori che riguardano non solo il nostro Paese – tanto che anche in Germania si è registrato il medesimo calo – che vanno tenuti presente perché nei prossimi mesi potrebbero innescare qualche novità. Oltre all’inflazione che (nella Ue come negli Usa) sale – se tuttavia si rivelasse una crescita contenuta è tutt’altro che un fattore negativo – vi è certamente l’incertezza relativa alle materie prime e ai semiconduttori.
Circa le materie prime, il loro costo sta schizzando in modo imprevedibile, facendo salire i prezzi delle produzioni (secondo Eurostat, al momento si registra una crescita su base annua del 12,1%). Vi sono incrementi notevolissimi che vanno dal prezzo del tondo di acciaio per cemento armato (+243%), a quello del pvc (+73%), a quello del rame (+38%) eccetera.
Il problema dei semiconduttori, d’altro canto, sta comportando significativi rallentamenti nelle produzioni: la Sevel, per fare un esempio, ha deciso di fermarsi una settimana. In questo, in particolare, l’industria europea paga un processo di delocalizzazione imprudente in cui non si è tenuto conto della strategicità di certe produzioni.
Prima ancora di Next Generation EU e Recovery Plan, il programma Green Deal (2019) vuole ridisegnare e riorganizzare le filiere produttive in Europa: è questo il primo dei suoi tre grandi obiettivi (gli altri due sono innovazione tecnologica e carbon neutrality). Speriamo di riuscire a colmare questo gap, altrimenti – ancora una volta – rischiamo di rincorrere Usa e Cina.
@sabella_thinkin